Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
I nostri consigli

Se la gelatina diventa racconto

07 Luglio 2011
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In questi giorni caldi di un’estate ormai arrivata, il tempo libero richiede idee interessanti per essere impiegato e freschi quanto genuini spunti tutti da assaporare.

Vogliamo, così, accontentare i nostri lettori con un felice connubio fra un dolce racconto di Enzo Di Pasquale ed un’interessante ricetta di Maria Randazzo. Due amici con la passione per la cucina che regalano a Cronache di Gusto il “Vivace Tremolio” della Gelatina al Limone.

Piera Zagone

 
Vivace tremolio
Arrivai alle dieci e trenta in punto, come avevamo concordato.
Bussai alla porta, mi trovai davanti una donna alta, vestita di bianco. Dal collo pendeva una collana con rami di corallo che richiamavano le profondità del mare siciliano. Fece un cenno con il capo, scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio accennando a un sorriso lieve di benvenuto.
Mi porse la mano e lo sguardo fu diretto.
Occhi di caffè tostato con scaglie color pistacchio che guizzavano in prossimità delle pupille. Era come se al centro delle iridi si fosse schiantata la pupilla e che l’impatto avesse fatto schizzare colori di qua e di là. Stava di fronte a me e mi restituiva uno sguardo penetrante, la bocca carnosa socchiusa emanava freschezza, come una fetta di melone appena tagliata.
Sentivo un profumo speziato che punzecchiava l’aria e una fragranza aspra di zagara mi avvolgeva inebriandomi.
Una luce diffusa si spargeva moderatamente nell’ampia stanza, con riverberi che guizzavano ora su un vaso, ora su un quadro o una porzione di parete esaltandone il colore.
Mi invitò ad accomodarmi sul divano, avremmo iniziato dopo avere bevuto: versò nel bicchiere l’acqua di una caraffa dove affondavano cubetti di ghiaccio e fette di limone gelate. L’arsura si dileguò dando spazio a una piacevole sensazione di freschezza.
Lavorava presso una profumeria di Grasse e scoprii che si trovava a pochi passi dal mio studio. Era cresciuta nella campagna fiorita della Provenza, mi parlò delle distese violacee di lavanda, di mimose, di iris, di gelsomini, ma nelle sue vene scorreva sangue siciliano. I  nonni paterni avevano lasciato l’isola per fuggire dalla miseria. Lei non era mai stata nella regione dei suoi avi e sapendo che ero siciliano mi tempestò di domande.
 Le raccontai delle terre arse dal sole, smosse in profondità perché potessero produrre anche nelle stagioni di siccità. Del verde smeraldo delle palme nane dello Zingaro, dei pianori battuti dal sole dove facevano capolino le orchidee selvatiche.
Le parlai del mare …
“Azzurro?”, mi chiese.
“A volte azzurro”, le risposi, “altre volte verde o grigio, dipende dal tempo”.
Annuì.
“Anche l’odore del mare dipende dal tempo”, le spiegai.
“Dal mare mosso svapora un profumo acre, forte. Con lo scirocco gli odori sono meno intensi, fuggono via. Con la bonaccia sono fermi, stagnanti”.
Le raccontai della Sicilia, come a lei piaceva sentirla.
Tutto pronto: la tavola imbandita, ogni pietanza, preparata con cura, nulla era lasciato al caso. Era uno sfoggio di colori, di fantasia, di seduzione. Ogni singolo piatto parlava, raccontava una storia.
Sfilò dal collo la collana, la depose su un comò e sedette di fianco al tavolo.  
Attese in silenzio.
Aprii il cavalletto, vi sistemai la tela.
Le tele vuote mi creano un senso vago di smarrimento, così abbozzai uno schizzo rapido con il carboncino.
Avevo già in mente i colori da miscelare: giallo di Napoli appena rosato, ocra. Terra d’ombra e rosso cadmio.
Avrei iniziato a dipingere la sua pelle color cannella.
Il resto, dato dallo sfondo della tavola, sarebbe stato un’esplosione di colori e una geometria di composizioni con quelle mille forme con le quali si presentavano le pietanze.
Mi aveva contattato tempo fa commissionandomi l’opera. Ci eravamo sentiti telefonicamente e per la verità mi era sembrata molto strana la sua richiesta.
“Ho saputo che lei è un valido pittore siciliano. Sarebbe disposto a dipingermi al fianco di una tavola imbandita?”
Non mi diede il tempo di rispondere.
“Non mi dica di no, preparo tutto io, lei non deve fare altro che lavorare di pennello”.
“Ci sono anche gli apostoli”, azzardai allo scherzo, “attorno alla tavola?”.
Lei sorrise di gusto: “No, solo io e il cibo”.
Fu così che iniziai, forse spinto anche dalla curiosità, il lavoro su commissione.
Facemmo quattro sedute e ogni volta, come un rito sacro, preparava le pietanze ma erano sempre uguali e conservavano il loro posto originario, come le avevo raccomandato.
Il quadro non venne così male, lei lo apprezzò molto.
Un appunto per la verità lo fece: “Peccato che non si sente l’odore del cibo”, mi disse.
Solo a conclusione dell’opera mi invitò a cena.
“Non l’ho fatto prima”, si scusò, “perché ho voluto che lei ammirasse  tutte le pietanze, che le gustasse con gli occhi, che ne sentisse il profumo e ne apprezzasse la forma e che tutto questo fosse evidente dal dipinto”.
“Le posso chiedere perché mi ha commissionato un’opera del genere?”, chiesi.
 Intanto assaggiavo quelle delizie e questa volta ne godeva pienamente il palato.
Si alzò senza dire una parola, la seguii con lo sguardo, trasse dal cassetto della scrivania un libreccino nero con la copertina rigida e me lo mostrò con orgoglio.
“Guardi”, mi informò, “questo era della mia bisnonna siciliana, è un ricettario scritto di suo pugno. Lo conservo come una reliquia”.
“Seguo sempre le istruzioni per preparare le singole pietanze. Certo,  metto anche qualcosa di mio”. Fece una breve pausa, per riprendere con tono nostalgico: ”Voglio tramandare ai miei nipoti le ricette aggiungendo l’immagine, ecco perché ho voluto che venissero ammirate”.
 “Il cibo”, mi spiegò, “deve essere apprezzato prima di ogni cosa con lo sguardo”. Stavo assaggiando la gelatina di limone quando mi fermò accarezzandomi la  mano: “prima l’ammiri, si lasci catturare dal cibo” mi suggerì.
Aveva un aspetto sensuale, circondava un limone, sul quale stava adagiata una foglia.
Quando affondai il cucchiaino, la gelatina si mosse con un vivace tremolio come se stesse per ringraziarmi.
Si era instaurato una sorta di dialogo tra me e il cibo.
“E’ una delizia”, le dissi.
“La gusti anche con l’olfatto, cosa sente?”
“Profuma della mia terra”.
Sorrise.
“Scorzette caramellate con la cannella, chiodi di garofano e anice stellata, colla di pesce, l’ho preparata secondo le indicazioni di una ricetta antica”, mi informò orgogliosamente.
In quella serata parteciparono tutti i sensi, fu un viaggio nel passato, una melodia di gusti che mi fece toccare le vette del sublime.
Enzo Di Pasquale