Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Il personaggio

“Vi racconto la Nuova Zelanda del vino”

06 Aprile 2012

Ivan Cappello ha 26 anni. E’ uno dei tanti cervelli fuggiti dall’Italia.

Laureato nel corso di Laurea in Enologia e Viticoltura di Marsala ha deciso di compiere i primi passi della professione facendo pratica nelle cantine oltre confine. Dopo avere fatto tappa negli Usa, lavorando nel Missouri presso la cantina Stone Hill, si stabilisce in Nuova Zelanda. Una terra che conta in totale 33 mila ettari di superficie vitata, la metà di quella che vanta la sola provincia di Trapani. Qui da qualche mese collabora presso Sacred Hill, tenuta nella Hawke’s Bay, affiancando Tony Bish, l’enologo dell’azienda.

Ivan è un under 30 del vino che ha deciso di osservare e di vivere dal di dentro le nuove realtà enologiche per confrontarsi con mentalità diverse, per capire meglio a distanza la sua terra e perché costretto da una mancanza di sostegno ai giovani e di prospettive nel suo Paese .


Ivan Cappello

Oberato dagli impegni di vendemmia, in Nuova Zelanda si è per ora nel pieno del raccolto, Ivan trova anche il tempo di seguire via web il mondo del vino italiano. Capitando sull’articolo della nouvelle vague siciliana che Cronache di Gusto ha portato al Vinitaly, in cui figurano anche suoi colleghi e amici, ci contatta per dare una testimonianza, a 11 ore di fuso orario, sulla sua esperienza.

 Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare la dimensione in cui si muove e per sentire anche il parere di un tecnico in embrione “distante” dall’enologia di casa. 
 
Come si sta muovendo la Nuova Zelanda in fatto di vino?
“Come sappiamo è una realtà giovane e in quanto tale ha il suo modello di riferimento. Questo è la Francia. Qui l’impostazione vitivinicola segue in tutto e per tutto l’esempio dei vigneron francesi. L’ho constatato in vigna come in cantina, dove impiegano il taglio bordolese. C’è quasi un riguardo maniacale nella cura dei vigneti. Che loro coltivano secondo l’impostazione propria del cru. Infatti chiamano le loro selezioni non monovitigno ma monovigneto. Per i produttori il vigneto è tutto. Il loro motto è “lavoriamo di più nel vigneto e meno in cantina. E qui, anche se non c’è la regolamentazione stretta come l’abbiamo in Europa, sono rigorosissimi e rigidissimi nei protocolli di vinificazione, fanno un’enologia pulita”.

I produttori neozelandesi ragionano in termini di cru ma poi non producono vini molto espressivi dal punto di vista della territorialità o tipicità. 
“Questo è vero. Intanto non hanno vitigni autoctoni e possono lavorare solo su varietà internazionali.  Confermo comunque che c’è molta uniformità dal punto di vista organolettico e questo per due ragioni”.

Quali?
“Una pedoclimatica. Le aree vitate sono concentrate solo in alcune valli del Paese dove i terreni e il clima consentono la viticoltura. Non sono molto estese e lì coesistono e sono concentrati i vigneti delle varie cantine. Per forza di cose l’espressività delle uve è la stessa. Poi c’è la ragione commerciale. I produttori sono legati tra loro da una fittissima collaborazione. Succede tra le aziende dell’ Hawke’s Bay o tra quelle della  Marlborough Bay. Fanno prodotti che siano il più possibile simili tra di loro, non si fanno una guerra commerciale giocata sulla differenza. Fanno così per affrontare il mercato e vendere in modo forte e incisivo il brand Nuova Zelanda. Per loro è questo il vino, business, non c’è quella poesia o storia che mettiamo noi”.


Vigneti dell’Hawke’s Bay

Quindi una produzione soprattutto orientata al mercato.
“Si. Il canale di sbocco è la grande distribuzione. Lavorano con le grandi catene e quindi producono secondo gli standard che queste richiedono. Però capita con le linee base. Poi succede che con le selezioni il vino diventa qualcosa di simile a quello che concepiamo noi. E addirittura sull’etichetta l’enologo pone la sua firma. Più importante del produttore stesso nel garantire la qualità del prodotto. E’ lui che ci mette la faccia, non il titolare dell’azienda. Il vino viene considerato come espressione dell’enologo”.

Quali sono le varietà più coltivate?
“Tra i vitigni coltivati in tutto il Paese il 70% è Sauvignon Blanc. Però ci sono zone vocate per i rossi, come quella di Marlborough dove imperano Pinot Noir e Syrah”.

Tra i loro vini quale trovi il più interessante?
“Il Syrah. Qui acquisisce caratteristiche particolari. Ha un livello qualitativo costante, ha belle espressioni. Nota di pepe nero, molto equilibrato nel corpo e nell’acidità, interessante al naso, in bocca.  Buona parte delle cantine sanno lavorarlo molto bene con le barrique. Sono bravissimi ad usarle”.  

Anche lì sta prendendo piede lo stile del vino fruttato, beverino dove protagonista assoluto è il varietale?
“Ancora no, si continua a volere vino barricato. Lo si produce perché è il mercato estero che lo richiede. Soprattutto la Cina, verso cui la Nuova Zelanda sta concentrando le esportazioni. Anzi espressamente i cinesi chiedono vini che non sappiano di cheaps ma di legno di barrique”.

E l’orientamento al vino naturale?
No. In questo Paese il concetto di naturale è normalità e tradizione. L’attenzione alla natura e all’ecosistema non è un’eccezione come lo è da noi. Qui è normale usare rame e zolfo, non fa notizia perché è cosa condivisa da tutti i produttori da sempre. Per cui se in Italia il concetto di naturale oggi è diventato una leva su cui fare promozione e differenza in Nuova Zelanda non ha motivo di sussistere”.

I consumatori neozelandesi sono preparati, capiscono il vino?
“Dico solo questo. Ho visto gente soffermarsi davanti allo scaffale del vino e studiare l’etichetta, prendersi il tempo per scegliere accuratamente bottiglie dal costo medio di 30/40 dollari. Per loro affrontare una spesa del genere sul vino è normale. Una scena di questo tipo in un nostro supermercato non si è mai vista. Vogliono bere bene e sono disposti a spendere. E lo si nota anche dalla presenza di bottiglie di 70/80 euro. C’è molta attenzione verso il vino”.

A questa distanza dalla tua terra come vedi il vino siciliano?
“Quello che noto è che ancora non lo si sa vendere e promuovere. Contrariamente a quanto avviene qua, in Sicilia non si riesce ad imporre ancora uno stile siciliano, un brand siciliano. Qui, posso assicurarvi,  che non arriva il messaggio Sicilia. La gente sa cosa è la Sicilia ma meno cosa sia il vino siciliano. E non c’è modo di reperirlo. In quelle rarissime etichette in cui incappo devo scoprire poi che sono imbottigliate in Veneto o in Piemonte. I produttori siciliani dovrebbero prendere in mano le redini dell’intera filiera. Perché alla fine sono gli imbottigliatori a dare un loro gusto siciliano che realmente siciliano non è. Perché guardano ai loro interessi. E poi manca la volontà di fare sistema. Se tutti collaborassero, inevitabilmente ci sarebbe un miglioramento generale nella qualità del prodotto stesso e sarebbe ancora più facile vendere”.

Quali vini italiani si bevono?
“I toscani e i piemontesi. Qualche altra regione la si può trovare nelle enoteche, che comunque sono rare. Devo dire che
si sta cominciando a vedere di più in giro il Primitivo di Manduria”.
 
Rimarrai in Nuova Zelanda? Progetti per il futuro?
“Non so per quanto tempo ma per ora mi fermo qui. I miei progetti li voglio dedicare al Marsala. E’ il vino a cui sono più legato e vorrei che fosse rispettato il suo valore. Per questo io e il mio coinquilino, un avvocato inglese che ha deciso di venire in Nuova Zelanda per approfondire la conoscenza sul vino, abbiamo pensato ad un progetto di rilancio del Marsala. Si tratta di una nuova etichetta, e a firmarla 200 anni dopo sono ancora una volta un inglese e un italiano. Ma i dettagli li darò a progetto ultimato”.


Tony Bish durante una lezione tra i vigneti

Ma come meta definitiva non pensi alla Sicilia?
“Si. Vorrei proprio mettere in piedi magari una cantina e dedicarmi al Marsala. Ma da giovane laureato che è dovuto andare fuori vedo che non ci sono prospettive incoraggianti. La nostra professione è particolare, richiede anni di esperienza, però non ti consentono di farla. Noto anche una mentalità che non è favorevole a trasmettere saperi e tecniche alle nuove generazioni. Di questa cosa ne sono ancora più consapevole adesso. Vedo che in Nuova Zelanda tutto è predisposto per tramandare la conoscenza. Vedo massima disponibilità da parte dei miei superiori. Qualsiasi cosa tu voglia sapere o imparare loro fanno di tutto per consentirti di apprendere. Questa disponibilità non l’ho notata in Sicilia. Si tende a tenere i segreti, a non trasmettere tutto per timore che il mestiere ti possa venire rubato”. 

M.L.