Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'intervento

” La transumanza come valore immateriale? Un ossimoro”

25 Dicembre 2019
transumanza transumanza

Riceviamo e pubblichiamo

di Roberto Rubino*

Morto il re, viva il re! 

Tutti i media, in questi giorni hanno dato la notizia, con la dovuta enfasi, che la transumanza è stata iscritta dall’Unesco nella lista non dei siti, ma dei valori immateriali da tutelare come patrimonio dell’Umanità. L’atmosfera è un po’ quella che si respirava dopo che alla Dieta Mediterranea toccò la stessa sorte. La dieta mediterranea non esiste più, la transumanza se la passa abbastanza male e noi tutti siamo contenti perché almeno, non potendole salvare, ne abbiamo preservato e chiuso in una bella teca da esporre in salotto, il loro valore immateriale. A pensarci bene, c’è una coerenza in tutto questo. Abbiamo portato la qualità delle materie prime ai minimi termini, abbiamo fatto di tutto per indebolire la transumanza, facendo scomparire come per incanto migliaia di chilometri di tratturi e mettendo a punti leggi che ne limitassero i movimenti e, quindi, non volendo tornare indietro, non ci rimaneva altro che attaccarci al loro valore immateriale. In pratica è la dimostrazione che non ne conosciamo il valore materiale e, per questo, in fondo, stanno scomparendo.

Ma restiamo alla transumanza. Questa forma di allevamento trovava e trova giustificazione nel clima e nell’orografia del territorio, che favoriscono la scalarità della crescita dell’erba e nella disponibilità di grandi estensioni di terre. In Africa, la persistenza del nomadismo trovava una spiegazione oltre che nel clima anche nella forma giuridica musulmana della proprietà che, a differenza di quella romana, dava preferenza al possesso e all’uso immediato della terra piuttosto che ai diritti di proprietà sulla stessa. Se questi erano i motivi strutturali, nel corso del medioevo fu la produzione e il commercio della lana e, soprattutto, le tasse che gravavano su pecore e lana a convincere i monarchi a stimolare, sviluppare e organizzare la transumanza. La nascita della Mesta in Spagna è del 1273; nel regno di Napoli la Dogana della Mena viene ufficialmente istituita nel 1447. Ma non era così dappertutto. Mentre in gran parte dell’Europa il sistema agricolo-industriale veniva impostato su un modello che metteva alla base le terre pubbliche e una organizzazione rigorosa del mercato della lana e del tessile, in Gran Bretagna la gentry, i signori che abitavano nelle campagne imposero le enclosures, le recinzioni, cacciarono i pastori e misero in piedi un modello stanziale, potendo approfittare di un clima con minori escursioni termiche. L’industria della lana è stata il motore economico durante tutto il medio evo fino all’illuminismo. Il declino inizia con l’aumento della popolazione. L’agricoltura prende il sopravvento fino a diventare preponderante, La lana perde di importanza, gran parte dei pascoli vengono messi a coltura, i tratturi, pur essendo protetti dell’uso civico, vengono abbandonati prima e poi smembrati e i chilometri di “erbal fiume silente” si sono ridotti a poche strisce di terra che sono state risparmiate solo perché lontane dai centri antropizzati.

Che la transumanza dovesse restituire ampi spazi era nell’ordine delle cose, ma la reazione si è trasformata spesso in una dura opposizione. Iniziano gli illuministi napoletani con Galanti che, nel 1792, scrive: la transumanza non conviene che a popoli erranti e poco inciviliti perché consagrando le migliori terre del suo regno al pascolo, si studiava di perpetuare il disertamento in cui l’aveva trovato e che più sano consiglio sarebbe stato ristabilirvi al tempo stesso la popolazione e di rendervi, come in Inghilterra, il cittadino pastore e agricoltore insieme. Nel Novecento, la quasi totalità delle leggi favorisce il modello stanziale a scapito di quello pastorale: le razze locali vengono considerate scarsamente produttive e si favorisce (si impone) l’introduzione di razze straniere con malattie al seguito. Il paradigma di questa cultura è la legge sull’Alta qualità del latte del 1989. Il sistema intensivo decide che il suo latte è il migliore e che per questo si deve chiamare: Alta Qualità.  Cioè il latte del sistema industriale, per definizione di bassa qualità, perché gli animali producono quantità elevate di latte, viene indicato  a modello e, chiaramente, quello dei sistemi al pascolo, rimane ai limiti della legalità. Non a caso, se i formaggi di vacca sono gialli, il consumatore storce il naso, perché sospetta che sia in atto una ossidazione. Un noto caseificio, un paio di anni fa, fece una pubblicità alle proprie mozzarelle dicendo che se una mozzarella è gialla bisogna scartarla perché fatta con acido citrico. Dire due stupidaggini in tre parole è un capolavoro di comunicazione! Il problema è che nessuno ha denunziato quel caseificio. O lo ha deriso, che sarebbe stato ancora meglio. Il colpo di grazie lo hanno dato le leggi sull’igiene, soprattutto al Sud, in Spagna e nei paesi del Nord Europa. Via il legno dai caseifici, mattonelle e sanitizzazione diffusa, fermenti aggiunti e persino pastorizzazione. A onor del vero, le regioni alpine hanno fatto il possibile per preservare i loro alpeggi, anche se anch’essi hanno dovuto pagare gli effetti collaterali della cultura dell’intensivo.

Quindi, la lana non vale più niente, la carne sì, va bene, è podolica o alpina, ma è dura, senza grasso e rende poco al macellaio. Vuoi mettere quei tori tutto muscoli. Ma il sapore? E che c’entra, è la resa che conta, ecco perché la carne oggi è il simbolo dell’insapore e della nostra ignoranza gastronomica. E i formaggi? Per anni i formaggi degli alpeggi sono stati sacrificati sull’altare della pianura. I Consorzi di gran parte delle Dop alpine hanno sempre vietato la differenziazione del prodotto d’alpeggio, di grande livello, da quello invernale, molto più modesto, per non penalizzare quest’ ultimo. Solo in Francia il Comtè ha due marchi che fanno riferimento, anche se non in maniera assoluta, ai due sistemi di allevamento. Ritorniamo un attimo alla Dieta Mediterranea. Se abbiamo questa tradizione gastronomica, se abbiamo questo livello qualitativo e anche di conoscenza, perché poi non riusciamo a capire cosa e dove è la qualità? Come si fa a dire che un formaggio giallo non è buono?  Il conto torna alla fine. Noi non sappiamo valutare un formaggio e non ne parliamo della carne. Fa venire voglia di diventare vegani tanto è scadente. E la stessa dieta mediterranea è una scatola vuota, per il semplice fatto che le materie prime sono tutte uguali perché il prezzo è unico. La qualità è differenza (Aristotele, la Metafisica), non uniformità. Invece da noi il prezzo del caffè è uguale in tutti i bar. Così come quello della carne e non puoi neanche scegliere. Non ci resta che il valore immateriale. La transumanza come valore immateriale? Un ossimoro.

*presidente Anfosc