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Scenari

Il futuro dell’Etna del vino/20. Turi Geraci: “Prezzi alti, l’effetto moda, la longevità…attenti”

21 Febbraio 2020
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(Salvatore Geraci)

di Francesca Landolina

È entrato in punta di piedi sull’Etna. Quasi per “gioco”. E tiene a precisare: “Sono e resto un produttore dello Stretto di Messina, un produttore di Faro Doc”. 

Quel suo Faro, d’altra parte, è ormai un vino icona della Sicilia.  Ed erano i primi anni ’90. Da allora, di vendemmie ne ha passate ben 30. Poi, anche per lui, è arrivata quell’attrazione Etna, di cui ha subìto il fascino. Parliamo di Salvatore Geraci, patron della cantina Palari, in località Santo Stefano Briga, piccola frazione di Messina abbarbicata sui Peloritani che da qualche anno ha investito sull’Etna, sul versante Nord del vulcano, producendo poche bottiglie di Etna Doc Rosso e Bianco, con il nome di Rocca Coeli. E proprio il Rocca Coeli Etna Rosso Doc 2015 ha già ottenuto 96 punti da Wine Enthusiast. Un risultato che lo inorgoglisce, ma che tiene quasi in sordina. “Ne produco poco e ne continuerò a produrre poco, ad un prezzo contenuto”, afferma. Iniziamo da qui la nostra intervista, cominciando con il chiedere quali motivazioni lo abbiano spinto sull’Etna.

Perché ha scelto di produrre sull’Etna?
“Secondo l’accezione francese, l’Etna è l’unico terroir del Sud Italia dove c’è un misto di luogo, storia, tradizione. Lo dimostra il fatto che è bastato poco per fare emergere questo e per portare il territorio al successo. Questi fenomeni, in Sicilia, nascono da soli o per virtù dei privati, quasi mai dal pubblico. Ed anche io ne ho subito il fascino. Forse così come c’è il ‘mal d’Africa’, c’è il ‘mal dell’Etna’. Il territorio è la prima motivazione che mi ha spinto. La seconda è la sfida con il Nerello Mascalese. Sono alla trentesima vendemmia con questo vitigno e mi intrigava la sua espressione etnea, il vederlo mutare, passando dalla Faro Doc, dallo Stretto di Messina dove ci sono elementi forti come il terreno sabbioso, il rapporto col mare, i sentori di iodio, la salinità, quei venti che vengono da Levante e toccano le vigne, per arrivare alla Montagna, al terreno lavico etneo, con un clima continentale e il rapporto col nevaio. Impegnarmi in questa esperienza mi intrigava. Evidentemente il binomio attrazione del luogo e Nerello Mascalese mi ha spinto qui. Ho trovato un vigneto con viti centenarie, con un vecchio palmento e una storia e ho deciso di cimentarmi. Al di là della parte intuitiva iniziale, ho scoperto che la maturazione del Nerello Mascalese sull’Etna non è facile e devi avere il coraggio di protrarre la vendemmia, mettendo in conto tutti i rischi nei quali puoi incappare. L’Etna ha un clima continentale con problemi di muffa e di grandine. Serve saper attendere, inoltre, prima di mettere in commercio un vino”.

Un tema su cui si dibatte: i vini etnei possono essere longevi?
“L’Etna è nata ieri, non si conosce ancora la risposta dei vini. La longevità è sempre un’incognita misteriosa. Alcune credenze sui vini alcolici e longevi, per esempio, sono false. Non sono i muscoli che fanno invecchiare bene, semmai l’equilibrio fra la componente acida, quella alcolica e poi quel qualcosa di misterioso. L’evoluzione in bottiglia la dimostra solo il tempo, ma servono almeno 20 anni. Non voglio sentenziare adesso, ma avete mai provato vini etnei di 20-25 anni fa? Faccio un esempio, il mio Faro Palari comincia adesso a dare la risposta sulla longevità, ma la prima vendemmia è datata 1990. I vini etnei mi lasciano perplesso sulla longevità. Ci sono delle differenze, tuttavia. Posso dire di aver provato vini vecchi come quelli di Graci, di Girolamo Russo, di Franchetti e di de Grazia, per fare alcuni esempi, che fanno ben sperare. Ma la stragrande maggioranza no”.

E i bianchi? Stesse perplessità?
“L’Etna è un territorio freddo, d’altitudine, si presta ai bianchi. Io ci credo, e mi sono cimentato nel bianco con la testa di un rossista. Penso che i bianchi possono avere maggiore longevità ma è sempre il tempo a dare le risposte. Per me, il Carricante è un vitigno che si presta ad una vinificazione impegnativa, con legno e tempi lunghi”.

Parliamo di identità. Ci sono aspetti che mettono a rischio oggi la riconoscibilità etnea?
“Sull’Etna ci sono cose buone e produttori seri, direi a macchia di leopardo, che fanno ben sperare. Poi il caos, che è anche naturale vista la crescita repentina e di conseguenza ci sono i bravi, i meno bravi, ed altri. Personalmente valuto positivamente l’arrivo delle grandi aziende siciliane: è gente seria. Fa conoscere il territorio nel mondo; sono marchi affermati e queste aziende sanno fare il vino. Non è roba da poco”.

C’è chiarezza sulle contrade? Il consumatore sa comprenderne le differenze?
“La mappatura è stata fatta in maniera geografica, ma non in maniera chiara per capire le differenze e solo il tempo può aiutare. Sulle contrade c’è una riconoscibilità, una matrice comune. E in generale, un vino etneo, se fatto bene, si riconosce. Poi, ancor prima di ciò, per me vale la corretta vinificazione, che non significa fare un vino buono, ma portare nel bicchiere il patrimonio che hai in vigna. Qualcuno sull’Etna riesce a farlo. E gli si può riconoscere”

Ma insomma l’Etna è una moda?
“Ho qualche anno di esperienza alle spalle e ricordo la moda del Nero d’Avola, quella del Chianti e così via. Poi come diceva qualcuno le mode passano, lo stile resta. L’Etna però ha un vantaggio: a differenza di altri fenomeni ha un territorio, diversamente dal Nero d’Avola, per esempio. Fino a 20 anni fa, è pur vero, che l’Etna era un territorio da vigneron, oggi il 50 per cento circa della produzione è concentrata tra una ventina di aziende. Il vigneron resta sempre vigneron. E la fascia media si deve confrontare con questa nuova realtà. Tornando alla moda che passa, lo stile resterà, come zoccolo duro. Come è stato per grandi cose siciliane. Si pensi al risultato che alcune grandi aziende hanno ottenuto. Certi vini che sono stati una moda, oggi non lo sono ma esistono ancora come vini icona, da trent’anni”. 

Errori da evitare?
“Paga sempre la serietà, non bisogna farsi ubriacare dal successo o dalla moda e rispettare il territorio”. 

Che ne pensa della politica dei prezzi attuale?
“Penso che il mercato alla fine ti premia o ti punisce: non è fesso. La risposta è sempre data dal tempo; il mercato sceglie prezzo e qualità, insieme. Detto ciò qualcuno comincia ad ubriacarsi e ad esagerare sui prezzi. Voglio ricordare che noi italiani abbiamo sempre un problema: un confronto da fare. Ed è quello con la ‘sorella Francia’, che ha più storia di noi. Ma si può fare pure un confronto italiano con un Barbaresco, un Barolo ed anche qualche Brunello, che costano meno e che hanno una storia ben più lunga alle spalle”. 

Favorevole alla Docg?
“Si dovrebbe fare e magari con qualche aggiustamento alla Doc di base. Il vino etneo merita quel tipo di attenzione”.

Nuovi vigneti. Secondo lei andrebbe messo un freno alla produzione?
“L’Etna è un territorio difficile ma tutto dipende da cosa ne vogliamo fare. Alla domanda rispondo allora con un’altra domanda: “Cosa se ne vuole fare dell’Etna?”. È un po’ come per il turismo: elitario o di massa? C’è un po’ di confusione e spesso mi imbatto in vini etnei non conosciuti, al costo di 21 euro allo scaffale, e al supermercato ne trovi anche a basso prezzo. Il consumatore di base non sa orientarsi, specialmente all’estero. La forza di un nuovo vino sull’Etna, in una categoria sovraffollata, dove sta? All’estero, la realtà etnea è già definita sovraffollata. Faccio un esempio, io che ho i miei canali di importazione da anni, non ho problemi a collocarlo, ne produco poche bottiglie quasi per gioco, del resto, ma un nuovo debuttante che mette sul mercato un vino etneo, partendo con un prezzo sostenuto, all’estero ha serie difficoltà perché già le sedie sono occupate. Gli importatori conosciuti gli Etna ce li hanno già. Pensiamo anche a questo, che è una realtà”.

Ma se il mercato estero non sarà così disposto ad assorbire bottiglie a prezzi sostenuti e una produzione crescente di vino etneo, cosa potrebbe accadere? Vino svenduto, come conseguenza?
“Classico fenomeno o meccanismo conosciuto”.

Il costo delle uve è cresciuto, pensa che continuerà a crescere?
“Il costo delle uve si assesterà. Ci sarà una fase di assestamento ma non un crollo. Vale anche per i prezzi dei vini”. 

Promozione. Da Contrade dell’Etna all’evento istituzionale del Consorzio, cosa ne pensa?
“Posso dire che Contrade è stata un’iniziativa di grande successo, una di quelle rare in Sicilia, che ha portato gente di rilievo dall’estero e dall’Italia. Oggi faccio parte del Consorzio e penso che lavora bene. Spero che invece di un evento di successo ce ne siano due. Poi non saprei dire altro sulla promozione. Sono un produttore dello Stretto di Messina, con la grande passione dell’Etna e che beve tanto vino dell’Etna”. 

Come pensa che sarà il futuro dell’Etna?
“Una moda, chiaramente, è una moda, che come tutte le mode finirà ma a differenza di altri territori, l’Etna ha uno zoccolo duro che non scomparirà come neve al sole. Resterà. Ricordiamoci che periodicamente il Vulcano vomita fuoco e tutto il mondo ne parla e ne parlerà. Ci sarà un momento di stabilizzazione. I seri resteranno, indipendentemente dalla quantità di bottiglie prodotte, dal fatto che si tratti di grandi aziende strutturate o di vigneron”. 

Lei aumenterà la sua produzione?
“Non penso che accrescerò la quantità e il prezzo di vendita dei miei vini etnei sarà più basso del prezzo del Faro Palari, che è il mio vino rappresentativo. Se mai farò un cru dell’Etna, allora lo venderò quanto Romanée-Conti”. Chiude così, con disarmante ironia, l’intervista.

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