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Le interviste della domenica

Kuaska: le birre artigianali cercano la qualità, quelle industriali invece soltanto il profitto

07 Giugno 2020
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Il grande esperto Lorenzo Dabove a ruota libera su passioni, bevute e viaggi all’estero. Il racconto dei nomi più importanti degli artigiani italiani e una descrizione tutta da leggere del lambic.

Chiamiamo al telefono Lorenzo Dabove. Scritto così questo nome e cognome probabilmente dice poco ai lettori di Cronache di Gusto. È molto più famoso il nome d’arte di questo genovese dall’espressione spesso incuriosita e sorridente. Per tutti è Kuaska. Ovvero una delle figure più competenti sulla birra artigianale che ci sia in Europa. Kuaska della birra, delle sue fermentazioni, degli stili, degli ingredienti e dei personaggi che ruotano attorno a questo mondo liquido conosce tantissimo. E grazie a una memoria d’acciaio e un palato superallenato e prodigioso è una risorsa per tutti gli appassionati del bere bene. Irresistibili le sue lezioni. Ma qui non stiamo scrivendo per descriverlo ma per ascoltare il suo pensiero.

Buongiorno Kuaska
“Buongiorno a voi. Stavo giusto finendo di stappare un paio di bottiglie per un controllo di qualità. Ma chiedimi pure quello che vuoi”.

Ti osserviamo da tempo. Anche nelle tue costanti incursioni a Taormina Gourmet dove diverti, intrattieni e divulghi. Sei sempre di buonumore. Non ti arrabbi mai?
“Rarissimamente. Ma quando mi arrabbio spacco tutto, mi sarà successo due, tre volte nella vita. Comunque sì, ho un carattere buono, accomodante, metto acqua e non benzina sul fuoco”.

E non sei mai permaloso?
“Mai. Mi altero quando vedo incompetenza nel mio campo. Nella mia vita avrò tranciato al massimo quattro persone su migliaia a cui voglio bene”.

La ricetta del buonumore?
“La consapevolezza che la vita non abbia un suo senso. C’è chi ha la fede, chi infatuazioni, chi crede in cose materiali. Io ho però una fortuna, fare un lavoro che mi piace. Non lo chiamo un lavoro. Ma lo è”.

Il tuo lavoro?
“Poeta e scrittore d’avanguardia. Attività che devo, per cronica mancanza di tempo, trascurare e questo mi pesa molto. Una cosa che mi piace? Nei miei viaggi in Belgio, rompere quella “corazza” tipica del carattere dei fiamminghi, che una volta rotta ti fa interagire con un popolo che sembra freddo solo in apparenza.”

Perché parti subito dal Belgio?
“Bruxelles, dopo Genova, è la mia città del cuore. I bruxellesi sono autonomi, Il loro caratteristico saluto si attua dandosi un pugno con la mano destra nella sinistra, esclamando “Bruxelles Capital”. Nel dialetto loro che mischia fiammingo e vallone c’è una parola magica, “zwanze”, intraducibile che raffigura il folklore di Bruxelles”.

Perché è la tua città?
“Alain Fayt è un mio amico e cuoco del ristorante Restobières, che fa solo cucina bruxellese. Ogni mattina da quando è iniziata sta’ pandemia mi manda poesie e pensieri e ogni sera alle sei ci scambiamo i dati relativi ai nostri due paesi. Pochi lo sanno ma il Belgio è tristemente in testa ai contagi in rapporto al numero di abitanti perché sono stati veloci a chiudersi però qualcosa non ha funzionato. Bruxelles è una città molto multietnica. Come New York. Chissà se ci sia un legame. Non so”.

Ma ripeto, perché è la tua citta?
“Per svariate ragioni. Non a caso, è stata la prima città belga che “invasi” a inizio anni ‘80 per coronare un sogno, spinto dal capitolo sul lambic, prodotto esclusivamente nell’area di Bruxelles, scoperto nel libro “World Guide to Beer” del 1977 del grande Michael Jackson, the Beerhunter, poi diventato il mio maestro e per il quale scrissi il capitolo sull’Italia nel suo ultimo libro, uscito nel marzo 2007, pochi mesi prima della sua scomparsa. Da quel giorno nacque un amore per la città, i suoi abitanti e i belgi in generale che si fece di giorno in giorno sempre più forte”.

Il Belgio è la nazione che fa per te?
“Sì. Sono in grande sintonia con la mia “seconda patria” dalla quale sono stato adottato. Mi hanno nominato “Principe del Pajottenland”, piccolissima area a ovest e sud-ovest di Bruxelles in cui scorre il fiume Zenne, la cui microflora è formata da almeno 84 famiglie di batteri e lieviti selvaggi”.

Cosa è un lambic…
“È una bevanda antica, raffigurata nei quadri di Bruegel del ‘500. Io non la chiamo birra, nasce dalla fermentazione spontanea di un mosto formato da almeno il 30 per cento di frumento crudo non maltato e il resto da orzo maltato con aggiunta di luppolo invecchiato per sfruttarne le proprietà di conservante, antiossidante e disinfettante. Per me rappresenta una ragione di vita, una filosofia e un’ideologia”.

La tua amicizia con Jean Pierre Val Roy, patron di Cantillon?
“Entrai nel suo tempio, la Brasserie Cantillon ad Anderlecht, a cinque minuti a piedi dalla Gare du Midi, nel 1982 e la mia vita cambiò. È una leggenda vivente a 78 anni, genuino combattente e acerrimo nemico dei compromessi, fattori in me latenti che questo straordinario “mio secondo padre” ha fatto deflagrare. Ho lottato al suo fianco per predicare il lambic e la gueuze tradizionali contro chi voleva far passare per vero quello che vero non era utilizzando zuccheri ed addolcitori. Suo figlio Jean, 53 mio fratello e ora suo nipote Florian, 24 continuano la produzione di lambic e gueuze nel rispetto della tradizione e della filosofia di Jean-Pierre”.

Descrivici un lambic…
“Apri una bottiglia. Puzza. Sorseggi. È acida. Sembra una birra andata a male. Devi prendere atto di tutto questo e ricominciare. Così troverai gli odori, le puzze nobili. Una vera gueze deve puzzare recita un antico detto locale. Punte di aceto, mela, limone. Poi sangue, ferro. Poi stracci, sassi della ferrovia, la coperta del cavallo e, mia creazione, le carte da gioco vecchie. Hai presente? Nella mia testa è un odore nitido. E poi il chiuso degli armadi e l’umidità delle cantine”.

E dopo chi ha il coraggio di bere?
“Prima di odorare e bere bisogna conoscere la storia e i personaggi, cosa che faccio da decenni nelle mie presentazioni in tutto il mondo. Poi sarà più semplice approcciarsi ad una bevanda così difficile e lontana. Potrà col tempo piacere oppure no ma a me basta che se ne prenda atto. Posso però assicurare di avere “convertito all’acido” migliaia di appassionati tant’è vero che non si possa negare un’autentica “resurrezione” del lambic e un crescente interesse verso le “sour beers” in tutto il pianeta”.

Parliamo di birre artigianali. Come è nato tutto in Italia?
“Sono un po’ il papà. Ero riluttante all’inizio. Noi italiani, diciamolo, siamo molto intelligenti. Ed allora non avendo tradizione abbiamo spinto la nostra creatività. Tutto qui. E non è poco. Se giri il mondo riconoscono all’Italia di essere leader. Abbiamo creato il made in Italy, le castagne, i cereali italiani, il farro. Siamo arrivati alle birre legate al territorio. Frutta, erbe, spezie. E ancora le Iga legate al mondo dell’uva col mosto del vino. Sì, stanno dando grande lustro. Esiste uno stile italiano e non è finita qua”.

Chi ha cominciato, chi il più bravo?
“Il più carismatico dei fondatori è Teo Musso, il patron di Baladin. È ancora sulla cresta dell’onda, è pieno di immaginazione, dà lavoro a 300 persone a Piozzo, in provincia di Cuneo. Ancora adesso fa birre innovative”.

E poi?
“Barley, ovvero Nicola Perra. Usa la sapa che sarebbe il mosto cotto della Sardegna. Un genio”.

Altri nomi?
“Riccardo Franzosi di Montegioco. Walter Loverier di Loverbeer vicino a Torino. Esporta molte birre all’estero. Matteo Billia del birrificio Sagrin, uno dei primi a utilizzare il mosto di vino, sta nella zona di Asti. E tantissimo Agostino Arioli col suo progetto Klanbarrique, il capostipite, tuttora sulla breccia. E anche Birrificio Lambrate, birre di alta qualità. Ma anche Schigi, molto creativo con Extraomnes. Impossibile citare tutti coloro che fanno grandi birre in Italia, quando nel 2000, scrissi l’articolo per la prestigiosa rivista americana All About Beer, non avevo alcun imbarazzo dato che si potevano contare sulla dita di una mano”.

C’è il caso Di Vincenzo, il fondatore di Birra del Borgo.
“Certo. Ora Leonardo Di Vincenzo fa vino in Puglia. Come un figlio per me. Un mostro. Peccato che ha venduto al nemico più bieco. Ho capito dalle sue prime birre che sarebbe arrivato lontano con Birra del Borgo. Non mi sono sbagliato. Ma poi sono arrivati le multinazionali…”.

Giovani emergenti?
“Ca’ del Brado bolognese. Sieman birre e vino. Ritual Lab, recente trionfatore a Birra dell’Anno. Ma ne stiamo, giocoforza, dimenticando tanti altri”.

Il mondo della birra cosa ha imparato dal mondo del vino?
“Il concetto di essere artigiani. La birra ha capito che poteva essere un prodotto artigianale come spesso sa esserlo il vino. Birre artigianali prodotte da veri artigiani che hanno la fortuna di stare un paese diversissimo con tantissimi artigiani in altri campi. Hanno trovato vignaioli appassionanti che hanno subito capito e hanno collaborato. La passione prima di tutto, poi l’uso delle botti, la tecnica e via”.

E il mondo del vino ha imparato qualcosa dalla birra artigianale?
“Sì, il vino ha imparato dalle birre la libertà e la voglia di rivoluzione. Via le briglie, rimuovere le catene. Noi non ne abbiamo mai avute”.

Mi descrivi la differenza tra una birra artigianale e una industriale?
“Le differenze sono molte ma la principale sta nella ricchezza, carattere e complessità negli aromi e sapori delle artigianali rispetto all’anonimato e piattezza delle industriali. Fattori derivanti dalle due opposte filosofie: qualità per le prime e profitto per le seconde. Le prime utilizzano ingredienti selezionati per l’alta qualità e resa olfattiva e gustativa, sono quasi sempre non filtrate e soprattutto sempre non pastorizzate, sono perciò legate alla personalità del birraio di cui rappresentano un ideale prolungamento. Le seconde, utilizzando succedanei, rispondono alle leggi del profitto e del marketing diretto a dare al consumatore un prodotto standard, pastorizzato e che non porti ad un’educazione gustativa, pericolosa specie di fronte all’emergente fenomeno artigianale. Chi scopre le artigianali non torna più indietro. Trovo più importante definire bene il confine tra le due filosofie per non enfatizzare solo la parola “artigianale” ma per sottolineare la ben più importante e decisiva parola “indipendente”. Non mi basta che una birra sia buona, deve essere prodotta da un birrificio indipendente!”.

Però per birrifici artigianali e pub è un momentaccio?
“Il momento è drammatico. Molti però si sono attivati. Vendita diretta. Delivery. Chi produce birra ha cercato di conquistare i territori vicini. E la consegna spesso è gratuita se prendi una certa quantità. La strada è quella. È solo una pezza e ho paura che alcuni salteranno. I pub soffriranno di più”.

Raccontiamo i Paesi per te e per la birra più importanti? Partiamo dal Regno Unito…
“Dove ho imparato. Devo tutto a loro, al Camra. Lì ho cominciato ad assaggiare le birre. Senza il Regno Unito non ci sarebbe stato Kuaska”.

La Germania?
“Tutti dicono che non la amo. Non è vero. Mi piace molto anche se non è nelle mie corde totali. Certo c’è la Franconia che è molto di moda. Sono sostanzialmente d’accordo con quel giornalista che anni fa diceva che la Germania è il Paese della birra, il Belgio delle birre”.

Già il Belgio, über alles…
“È incarnito in me. Sono in costante contatto. Ti dico. Vado in alcuni locali dove non sono mai stato e mi conoscono. Oppure incontro un camionista belga fermo in un autogrill sull’autostrada. E scopro di conoscere i suoi parenti. Capisci? È empatia. Totale. Andrei a vivere in Belgio. Non farei neanche le valigie”.

Stati Uniti?
“Innamoramento totale. Penso di essere tra coloro che abbiano degustato più birra americana fuori dall’America. Negli anni ‘90 è esplosa la birra artigianale. Un mondo incredibile. La trovi dappertutto e respiri una sana aria di fratellanza tra i birrai”.

Repubblica Ceca?
“Il mio secondo amore dopo il Belgio. Mi piace la letteratura, la cultura, la gente. Io amo loro. E loro amano me. Sono clamorosamente corrisposto”.

Ora però il mondo della divulgazione è invaso da influencer e blogger. Che ne pensi?
“Ti dico una cosa. Io ho cominciato solo facendo viaggi. Per puro piacere. Mi godevo la compagnia di queste persone e non pensavo a fare foto o ad annusare. Mi godevo il momento. Chi va invece ora cerca il business. La birra per me è stato il fil rouge per conoscere le persone e la loro natura. Cosa fai annusi? Invece adesso tutti annusano solo perché hanno fatto un piccolo corso. Io ci ho messo venti anni a capire e sto tuttora studiando. I blogger, quelli incompetenti, li scioglierei nell’acido, in senso allegorico ovviamente. Io parlo solo di quello che so. Odio i tuttologi che infestano e inquinano la comunicazione in Italia”.

Il tuo consumo medio quotidiano?
“Se posso cerco di bere poco. Per piacere non più di due volte al giorno ma per lavoro mi capita di bere molto di più. Non bevo mai senza ragione. Non esagero mai. Detesto gli ubriachi. Non nego che in gioventù ho fatto qualche zingarata con un record di 28 Gueuze bevute di fila al festival di Londra, dato che all’epoca restavano invendute mentre ora vanno a ruba. Segno dei tempi. Peccato che quest’anno salterà come quasi tutti gli eventi, rinviati al 2021. Ma in Italia spero che Beer Attraction si possa regolarmente tenere nel febbraio 2021. Almeno quello”.

Fabrizio Carrera

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