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Scenari

Il futuro dell’Etna del vino/26. Lentsch: “Assurdo bloccare i nuovi impianti per 3 anni”

03 Luglio 2020
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di Francesca Landolina

“La proposta del consorzio dell’Etna di non autorizzare nuovi impianti per tre anni dal 2021 per me è inaccettabile. Ci sono aziende valide, che hanno investito da poco e al momento producono poche bottiglie; imporre questo limite significherebbe rendere insostenibile ogni investimento fatto. In altre parole, farle fallire”.

A parlare è il produttore bergamasco Massimo Lentsch, già proprietario dell’azienda vitivinicola Tenuta di Castellaro sull’isola di Lipari, che ha voluto intraprendere un’altra avventura sul suolo vulcanico, stavolta sfidando l’Etna, per dare vita ad una produzione vinicola di nicchia. Il progetto della sua cantina trova radici nel comune di Randazzo, in contrada Calderara Sottana. Lentsch non è al momento socio del Consorzio e apprende durante la nostra intervista le proposte che sono argomento di questi giorni (leggi questo articolo>). Il 9 luglio a Trecastagni, in provincia di Catania, si terrà infatti un’importante assemblea dei soci del consorzio dell’Etna Doc per discutere del blocco dei nuovi impianti per tre anni dal 2021 e della proposta di ridurre le rese dei rossi da 90 a 70 quintali per ettaro. “Anche su questa seconda proposta non sono d’accordo – afferma Lentsch – la natura deve fare il suo corso e sta al produttore gestire le sue rese, in base alle annate, alle difficoltà incontrate in appezzamenti diversi e sparsi in posizioni diverse. Se si lavora bene nessuna qualità è compromessa”. Sulle due proposte le sue sono affermazioni chiare e decise. Continuiamo l’intervista.

Perché ha scelto di investire sull’Etna?
“Da molti anni produco vini su terreni vulcanici. La decisione di realizzare vigneti e cantina sull’Etna è una sorta di tappa che segna un cambiamento importante. Produrre vini di qualità su un territorio di grande tendenza, ma anche estremamente competitivo, rappresenta per me una sfida importante. L’Etna Rosso l’Ottava Isola nasce da questo progetto e dalla voglia di indagare su quel territorio molto interessante”

Secondo lei, è chiara oggi la riconoscibilità dei vini prodotti sull’Etna?
“Secondo me sì; ci sono tentativi di differenziazione a volte forzati, a volte meno, ma se gestiti con intelligenza sono un bene. Basta non uscire dalle regole del disciplinare. In qualsiasi importante distretto del vino, può esserci uno scostamento nella riconoscibilità, ma ritengo che muovendosi secondo le regole, si può giocare sulle differenziazioni. Apprezzo i prodotti con forte espressione territoriale”.

Pensa che siano stati commessi errori durante la fase di crescita del successo etneo?
“I grandi prodotti si fanno sulla base degli errori; probabilmente sì, qualche errore si è fatto, ma basta non perseverare. Per esempio, su Lipari abbiamo 20 ettari ad alberello e certamente sull’Etna non potevamo non adottare lo stesso sistema. Non ci siamo sentiti di fare qualcosa di diverso rispetto alla storia. Nel mio caso tuttavia sono un sostenitore dell’innovazione tecnologica nell’ambito delle regole. Questo significa che si può forzare la mano sulla meccanizzazione, nel rispetto della tradizione, con sesto di impianto ad alberello. Non è impensabile. Mi affascina proprio il fatto di mantenere i canoni di un modello tradizionale spingendomi nella logica della ricerca. Lo sperimentiamo continuamente, studiando all’estero, confrontandoci con artigiani. Ci sono modalità interessanti che possono mantenere la tradizione e agevolare il lavoro dell’uomo, con ottimi risultati”.

Cosa pensa dei prezzi dei vini etnei oggi?
“I vini etnei hanno indubbiamente un mercato importante, sono convinto che i prezzi alti siano espressione di prodotti buoni. In questo momento, il vino etneo è un prodotto richiesto ma se si vuole ottenere una certa marginalità all’estero bisogna offrire un prodotto qualitativamente molto valido. Credo che nel mercato ci sarà una selezione, la qualità non avrà problemi. L’equilibrio tra prezzo e qualità è sempre premiato. Forse non ancora in Cina, dove va fatto un grande lavoro da parte del Consorzio. In questo caso bisogna fare tanto per promuovere nei mercati del mondo dove il vino dell’Etna non è ancora conosciuto”.

E sull’allargamento della Doc?
“Sono favorevole; naturalmente parlare di un allargamento univoco è un po’ forzato, ma ci sono zone molto vocate, come Calderara, Monte La Guardia, Passopisciaro, zone insomma che si prestano sia per natura che per altitudine. Sì quindi ad un allargamento zonale, partendo da una analisi che tenga conto di terreno, altezza e microclima”.

Lei è un sostenitore dell’alberello?
“Ognuno è libero di interpretare il modo di fare il vino come vuole, ma posso dire che ho fatto molti studi e ho deciso di impiantare ad alberello perché non mi sono sentito di “violentare” la tradizione, soprattutto arrivando da fuori; in secondo luogo, credo che con una manodopera qualificata e con un occhio all’innovazione tecnologica si possa ottenere un prodotto di qualità superiore. L’alberello poi ha anche una sua bellezza estetica. Perderebbe la bellezza e la tradizione di un territorio per costo in più di 1,30 euro a bottiglia?”

Favorevole alla Docg?
“Penso che non faccia differenza. Non è determinante”.

Cosa suggerirebbe per la promozione?
“Si può imparare dai grandi distretti francesi: sono compatti nella loro opera di divulgazione dei prodotti all’estero. Il compito è del Consorzio. Vanno bene le iniziative importanti, ma punterei di più sull’estero. C’è molto da fare per fare scoprire le caratteristiche di un territorio così complesso come l’Etna. Serve un’azione pioneristica di diffusione del verbo Etna all’estero”.

Come immagina il futuro dell’Etna?
“Roseo. Altrimenti non avrei investito. Quanto durerà? Dipende dall’intelligenza dei produttori, ma penso che ci sarà una selezione naturale. Chi viene in vigna vede e premia il lavoro onesto ed etico. Un grande lavoro però, ripeto, deve farlo il Consorzio perché da soli i produttori non riescono a comunicare al mondo”.

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