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Scenari

Il futuro della Doc Cirò/5. Sergio Arcuri: “No allo sciacallaggio sul nome”

22 Luglio 2020
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di Francesca Landolina

“Il Cirò merita un ottimo disciplinare, all’altezza del Gaglioppo. Bisognerebbe fare qualche passo indietro”.

Torniamo a parlare di Cirò e del suo futuro, stavolta con il produttore Sergio Arcuri, che sull’argomento sembra un fiume in piena con tanto da dire. La sua cantina, di Cirò Marina, affonda le proprie radici nel XIX secolo, esattamente nel 1880. Oggi sono cambiate tante cose da allora e Arcuri racconta di un periodo buio per il Cirò, tra gli anni ’90. “Dieci anni fa di Cirò se ne parlava poco, perché molti lavoravano con il solo scopo di adattarsi al mercato, alle logiche del marketing, con ben poca pazienza. Eppure, ci sono stati anni di cui andare fieri. Se è vero che un vino pregiato dimostra quanto vale nel tempo, allora ricordiamoci che esistono straordinarie bottiglie di Cirò di 20 anni. Il Gaglioppo è stato solo svalutato nel tempo, ma è un gioiello. Abbiamo bottiglie di Lorenzo Bertolo del ’74, imbottigliate in Piemonte. Oggi c’è una ripresa, ma attenzione a non fare sciacallaggio sul nome Cirò. Non si può vendere un Cirò autentico a 5 euro”. Il disciplinare è stato modificato più volte. Ma gli interventi sono stati poco adatti al territorio, al vitigno, alle diversità, per Arcuri. “Quando parliamo di Cirò, è del Gaglioppo che stiamo parlando – afferma il vignaiolo – un vitigno che varia espressione dal mare alla collina. Abbiamo una perla in mano. Se il disciplinare fosse unico (rese basse, affinamenti adatti, uscite con almeno due anni di affinamento e due o tre anni in bottiglia) potremmo segnare una strada maestra. Il vitigno richiede anni prima di essere pronto. Mi rendo conto che con i mercati attuali, creati dalle cantine, è difficile far fare un passo indietro, ci vorrà del tempo per ridare la giusta dignità al nostro vino. In passato, si è cercato di fare numeri, ma alla fine arriviamo a 4 milioni di bottiglie. Bisogna fare ordine e inizierei anche con l’eliminazione dalla Doc di zone che sono fuori Cirò”.

Un cambiamento al disciplinare già c’è e si è anche aperta la strada per la Docg. “Con la modifica già si interviene sul problema del prezzo, perché nessuno venderebbe a 5 euro un Cirò che costa molto produrre. Sì, abbiamo presentato una modifica ma non basta – afferma – La confusione rimane. Faccio un esempio, personalmente produco una riserva che esce a 35 euro. E sono un caso. Il Cirò può valere oro, ma viene visto sempre come un vino che costa poco. Anche se in una degustazione alla cieca gli attribuiscono voti alti. Bisogna dunque eliminare i rami secchi. Le cantine grandi possono essere resistenti al cambiamento? Sì. Ma bisogna far capire che cosa vogliamo essere da grandi”. Sulle modifiche aggiunge: “Per la produzione del Cirò, eliminerei anche il 10 per cento di altri vitigni ammessi. Se vuoi fare solo Gaglioppo devi davvero avere vigne e rese basse. Attendere a lungo perché il vino va ammorbidito col tempo. Eliminerei i Cirò normali, il bianco e il rosato possono essere Igp e lascerei un solo Docg Cirò. Fare un Cirò serio costa produrlo, anche più di 10 euro a bottiglia. Ci vogliono anni per rifarsi una reputazione. Grazie a noi piccoli, guardati storti inizialmente, oggi c’è il Cirò vero in bottiglia. Ma cosa si vuole fare della Doc storica? Perché il nostro Cirò costa il doppio? I risultati noi piccoli li vediamo. Adesso i ristoratori capiscono che è meglio comprare le annate più vecchie. Non esiste per me altro Cirò”, afferma Arcuri.

“Ecco perché trovo assurdo sentir parlare di lievi incrementi di prezzo – prosegue – E poi avete visto rosati fucsia a Ciro? Non è neppure immaginabile, ma ci sono. Pensate che le vecchie schede tecniche di Cirò Rosato lo descrivevano di un colore aranciato, leggermente tannico, minerale. Oggi i rosati sono diventati dolci, fucsia e zuccherini. Il vero Cirò rosato è un vino gastronomico, va sull’arancio corallo. Non esiste il petalo di rosa, il fucsia, e poi è sapido, acido. Resa poco più alta, ma di un chilogrammo a vite”. Poi se qualcuno produce Gaglioppo come si deve e in purezza, ecco che, per Arcuri, scatta la confusione nel consumatore, che si chiede quale sia il vero Cirò. “Qui, il vero vignaiolo ha camminato sempre con la lambretta e le cantine lo hanno sottomesso – afferma – Oggi il Gaglioppo coltivato in biologico costa 90 centesimi al chilo, a privati. Il prezzo medio commerciale va dai 60 ai 70 centesimi. Ma voi lo sapete che negli anni ’70 aveva un valore di 300 euro a quintale? Con un ettaro ci campava una famiglia. Poi sono arrivati i vini da fuori ed è cambiato tutto”. Per Arcuri bisognerebbe ritornare ai vecchi disciplinari insomma affinché il Gaglioppo arrivi a costare 180 euro al quintale. “Sono i disciplinari che accrescono il valore di un vino. Confrontiamoci con il Barolo”, dice.

Riguardo alla Docg e all’obbligo di affinamento in legno afferma: “Mettere l’affinamento obbligatorio in legno, in barrique per 6 mesi, è un limite. Avrei preferito il legno facoltativo e solo in botte grande. Ma ha più potere chi fa più bottiglie, non chi fa più qualità. Non so se farò la Docg, il mio vino affina in acciaio e cemento”. Parliamo infine di territorio. “Qui abbiamo un problema: la politica che non si occupa del mondo viticolo. Si punta più alla cementificazione, puoi trovare un’officina tra le vigne. Chi visita le cantine e il territorio lo fa grazie a noi. E allora bisogna che a valorizzare il territorio siamo noi, come abbiamo fatto con la Cirò Revolution dobbiamo fare qualcosa per tutelare il territorio di Cirò. Solo in gruppo possiamo. Come Consorzio, come gruppo. Bisogna fare tanta attenzione anche alla pulizia del territorio. Abbiamo un problema con i rifiuti, tutti si lamentano ma ci si ferma sul da farsi”. E poi tanta promozione, aggiunge: “Ancora non comunichiamo bene. Bisogna andare all’estero. Al Nord Italia abbiamo trovato tanto spazio, ma ancora non si compra facilmente vino calabrese. Siamo in una fase crescente, in quattro gatti abbiamo messo in moto tanto”.

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