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L'intervista

Davide Cassi: “Il tempo della cucina molecolare è finito. Ora c’è quella scientifica”

18 Gennaio 2022
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di Alessandra Meldolesi

La pandemia ha duramente colpito la ristorazione, ma ha anche portato alla ribalta la scienza, improvvisamente pane per tutti i denti.

E se la cucina “molecolare”, rinnegata perfino da Adrià e Blumenthal, sembra ormai archiviata, il tempo della cucina scientifica, paradossalmente, potrebbe essere adesso. Ne parliamo con Davide Cassi, docente di Fisica della Materia e presidente del Future Cooking Lab, Università di Parma. Eminenza storica della disciplina, premiato nel 2013 con il Grand Prix de la Science de l’Alimentation de l’Académie Internationale de la Gastronomie, è vicepresidente del Science and Cooking World Congress e presidente della delegazione europea. “Di fronte al dilagante scientismo, c’è un grande desiderio di tornare alla scienza creativa”, esordisce.

Professor Cassi, come giudica lo stato di salute della cucina scientifica?
“Nei primi anni 2000, l’asse della ricerca su scienza e cucina si è spostato dai laboratori alle cucine, promuovendo la grande rivoluzione che tutti conosciamo. Adesso stiamo assistendo al passaggio inverso: si è tornati a fare più sperimentazione in laboratorio e la gastronomia scientifica inizia ad essere una disciplina ufficialmente riconosciuta. Tutto sommato è una fortuna: le avanguardie non possono durare troppo a lungo e, quando finiscono, subentra una fase di reazione. Se non ci fossero state solide basi scientifiche dietro la sperimentazione di vent’anni fa, tutto sarebbe passato come passano le mode. Quello che resta, per il momento, sono un numero immenso di nuove tecniche e preparazioni, che i cuochi giovani imparano alla stregua delle tecniche di cucina classica e reinterpretano secondo la loro sensibilità e lo spirito del tempo. D’altra parte, in 10-15 anni tutto ciò che era più o meno facile a farsi, con la scienza sviluppata fino ad allora, è stato fatto. In un lasso di tempo relativamente breve, si sono prodotte più innovazioni che in qualunque altro periodo della storia della cucina (secondo una ricerca di Alicia “che in tutto il resto della storia della cucina”…) ma si sono anche “bruciate” rapidamente tutte le conoscenze scientifiche facilmente applicabili alla cucina stessa. Adesso è il momento di portare più in alto l’asticella scientifica, indagando fenomeni e strutture ancora poco noti: checché se ne pensi, la scienza ha ancora tutto da scoprire sul comportamento degli stati complessi della materia che si producono negli alimenti”.

Dopo la chiusura di elBulli, quali sono stati a suo giudizio le innovazioni più dirompenti e i cuochi più avanzati nel mondo?
“Il Bulli è stato un fenomeno unico e irripetibile nella storia e gli effetti della sua chiusura si sono manifestati immediatamente. Se è vero che la grande rivoluzione spagnola ha avuto molti protagonisti e non uno solo, è altrettanto vero che era Adrià a dettare le tendenze e ad unificare l’avanguardia. Il primo cambiamento importante, che peraltro era già nell’aria, dal punto scientifico è stato il passaggio dalla centralità della chimica a quella della microbiologia: dalla cucina degli additivi si è passati a quella delle fermentazioni e delle muffe. In realtà, più che di un’innovazione, si tratta di una riscoperta in chiave moderna, perché le tecniche di fermentazione sono antiche come l’uomo. La novità, semmai, sta nella consapevolezza scientifica di ciò che si sta facendo, svuotando questo genere di preparazioni dall’alone di magia che aveva un tempo e sottoponendolo ad un controllo quantitativo dei parametri di processo. Negli ultimissimi anni, ho notato che sta nascendo un interesse sempre maggiore sui processi di cottura innovativi: dai forni a pressione al bagnomaria a pressione (la famosa Ocoo), ma siamo giusto agli inizi. Tra i cuochi, restando fuori dall’Italia per non dover operare scelte difficili, mi vengono in mente senz’altro Redzepi, Aduriz e Castro”.

(Foto di gruppo di rito al Science & Cooking World Congress di Barcellona)

Un bilancio dell’ultimo congresso cui ha partecipato?
“Il Science & Cooking World Congress di Barcellona, che si è tenuto lo scorso mese di novembre, rappresenta il punto di incontro più importante tra tutti i soggetti che lavorano nel settore. Sta consolidando una comunità scientifica internazionale intorno a tematiche molto più ampie rispetto a quelle dei primi convegni di Gastronomia fisica e molecolare: quest’anno, per esempio, l’argomento centrale è stata la sostenibilità. L’approccio è decisamente multidisciplinare, con largo spazio anche per materie comunemente ritenute umanistiche. Direi che siamo arrivati ad una visione molto più matura della natura e dei contenuti della Gastronomia Scientifica. Non ci si ferma alle pure curiosità tecniche, come avveniva un tempo, ma si approfondiscono le loro implicazioni sotto ogni punto di vista. Anche i cuochi, nei loro interventi, hanno recepito molto bene questa impostazione: l’aspetto “spettacolo” ha ceduto il posto a riflessioni molto ampie”.

Attualmente su cosa si sta ricercando nel mondo?
“Ci sono almeno due filoni molto promettenti. Il primo, come già dicevo, riguarda la ricerca di processi innovativi di trasformazione degli alimenti. In particolare, cotture in condizioni lontane dagli standard: alte e basse pressioni, atmosfere modificate, ecc. Anche l’applicazione degli ultrasuoni, dopo una prima fase esplorativa, sta dando risultati molto interessanti. Un’altra tendenza in grande crescita riguarda la cucina vegana: dalla ricerca di ingredienti alle tecniche di lavorazione. Ho assaggiato bistecche vegane di nuova generazione che, oltre a riprodurre il sapore della carne utilizzando proteine vegetali, imitano la struttura delle fibre muscolari attraverso un processo di stampa 3d”.

(Davide Cassi nel corso del suo intervento)

È vero che l’innovazione ormai è prerogativa dei big perché richiede troppi mezzi finanziari e attrezzature?
“Siamo entrati in una fase in cui il motore dell’innovazione è tornato nei laboratori scientifici. Non solo per una questione di finanziamenti e attrezzature, ma perché, dopo anni di applicazioni gastronomiche di innovazioni scientifiche, le idee semplici si sono esaurite. In questo momento è necessaria di nuovo una ricerca euristica, che esplori nuove possibilità senza l’assillo di applicazioni immediate. Gli spazi per progredire, ovviamente, sono ancora tanti. Nei prossimi anni, probabilmente, assisteremo all’arrivo di nuove attrezzature, che i cuochi sperimenteranno nelle loro cucine producendo preparazioni innovative differenziate in base al loro stile personale”.

Con la pandemia la ricerca si è fermata, è avanzata, è cambiata? È vero che la tecnica è meno in voga?
“La pandemia ha portato cambiamenti radicali, ma non ha fermato la ricerca. Le tecniche “spettacolari” hanno ceduto il posto allo studio di nuovi format di servizio e di consumo. Per i motivi che citavo sopra, in questo momento storico è molto difficile concentrarsi sulla ricerca tecnica all’interno della cucina di un ristorante. Ma si tratta di un’oscillazione fisiologica: la tecnica tornerà in voga quando nelle cucine arriveranno le nuove strumentazioni che, al momento, sono solo prototipi di laboratorio”.

Quali sono i piatti più interessanti che ha mangiato negli ultimi anni?
“Ad essere sinceri, negli ultimi anni, non ho trovato tanti piatti interessanti come nel decennio d’oro della sperimentazione. Ho trovato, invece, piatti molto buoni: in media più buoni rispetto a quelli di allora. È assolutamente normale: i cuochi hanno assimilato le innovazioni ed hanno imparato ad usarle nel modo migliore.
Se devo scegliere, opto per due estremi opposti. Il primo è Vibrazioni di Massimiliano Alajmo. Rappresenta un grande esperimento sulla sinestesia dei sensi, l’evoluzione 2.0 di The sound of the sea di Heston Blumenthal. Là esisteva la suggestione sonora, ma il commensale la subiva passivamente. Qui, entra in gioco l’interattività, il meccanismo di feedback: chi mangia ascolta i rumori amplificati del suo gesto gastronomico e lo rimodula sulla base delle sensazioni che produce.
L’altro è un torrone di ceci, che un artigiano spagnolo ha cercato di riprodurre sulla base di testimonianze scritte di secoli fa. Testimonianze, si badi bene, non ricette: l’analisi storico-filologica alla base del risultato è emozionante. Chapeau, in entrambi i casi”.