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Vini e territori

Duca Enrico compie 30 anni. Franco Giacosa: “Una delle scommesse più importanti della mia vita”

27 Settembre 2012
giacosa giacosa


Franco Giacosa

C’è qualcosa di antico nell’aria, o meglio nel cielo sopra la Tenuta Suor Marchesa, nell’agro di Butera in provincia di Caltanissetta.

E’  in corso il rito della vendemmia che qui propone  ancora atmosfere e sapori antichi, anche se tutto è votato ai prodigi del terzo millennio, con le sue tecnologie, gli attrezzi, la tempistica, le tecniche; è una buona vendemmia, già dicono le voci di quelle mani sapienti al solo palpar quel grappolo sodo e compatto. E’ un Nero d’Avola e diventerà un eccellente “Duca Enrico”: l’“immagine sacra” della Duca di Salaparuta.

Sarà la trentesima annata (la prima uscita in commercio è nell''84 ma la vendemmia è dell'82), ma questa la si ricorderà – dicono gli agronomi –  come una delle migliori. Un motivo in più per celebrarla. Seppur l’estate abbia sfiancato l’uva con una crudele siccità il  mite settembre ha regalato prima fresche e leggere piogge e poi un temperato caldo ventilato. Dal tale riequilibrio si è perfezionata una concentrazione fenolica dell’acino che caratterizzerà questo “Duca Enrico” di una tradizionale possanza, mentre sull’eleganza finale non si dubita mai ad un vino che la nobiltà ce l’ha sempre avuta nel sangue. Da almeno cinque generazioni. E gli avi li conosciamo tutti: partendo da Giuseppe Alliata di Villafranca, Duca di Salaparuta il fondatore di questa dinastia.

Correva l’anno  1824 e la sua residenza, la più sontuosa delle ville siciliane: “Villa Valguarnera” a Bagheria. Lì vi arrivavano vini da tutte le sue tenute, “ma il migliore – affermava il duca – era quello che arrivava dalla contrada Corvo di Casteldaccia”. E perché era il migliore? La risposta c’è ed esalta la sua grande abilità: non era il migliore perché fosse il più strutturato, il più alcolico, il più concentrato. Al contrario. Tale fu la sua  lungimiranza e la vastità di cultura, anche enoica, che il metro per giudicare i migliori vini che arrivavano a Villa Valguarnera era quello della finezza, dell’eleganza e soprattutto del minore grado alcolico  e della minore struttura. Questo è il Corvo inventato da Giuseppe Alliata. La cui storia del successo si dipana per ben altre quattro generazioni, sino al secondo dopoguerra,  grazie al suo pronipote il Duca Enrico cui è dedicato questo vino. Vino che nascerà come già detto con la vendemmia del 1982, ventitré  anni dopo che Topazia Alliata figlia del Duca Enrico, aveva venduto l’azienda alla Regione Sicilia finita poi in mano all’Ilva agli inizi del terzo millennio.


Alberello di Nero d'Avola, vigna in cui nasce il Duca Enrico

Ma come nasce questo vino?  Si “spettegola” benevolmente che fu un’iniziativa sognatrice e visionaria dell’enologo che intanto la Regione s’era scelto. Ed era un piemontese, Franco Giacosa. Capì da subito, appena messo piede in Sicilia, che quel Nero d’Avola non andava “umiliato” al rango di vino da taglio. Fu tale il suo entusiasmo che ne finì per contagiarlo anche a Giacomo Tachis, e ne fu così coinvolto che poi una sua certa impronta riuscì a lasciargliela. E si aprì una nuova era, si aprirono nuove frontiere con questo Nero d’Avola vinificato per la prima volta in purezza. Una tale ventata di novità che oggi ci ha portato qui  a celebrarla, ad evocare.  E oltre ad essere un grande vino e proseguire nel segno di una  continuità impeccabile, potentissima, nel rispetto delle linee tracciate dagli Alliata, quelle che lo fanno distinguere per eleganza e  finezza, spalancava una tendenza, anzi apriva un portone che oggi è ancora aperto, quello della valorizzazione non già dell’autoctono quanto tale, ma delle capacità del vitigno di rendere autentica l’ espressione varietale del suo territorio d’origine. Non furono gli unici a lavorare in questo senso, è doveroso citare che anche i Tasca d'Almerita sperimentavano, con risultati significativi, sul loro Rosso del Conte.  

Ma la faccia  più entusiasmante di questa esperienza è stata proprio la sperimentazione – commenta con ricordi colmi di emozione Franco Giacosa. “ Migliaia sono state le nostre  micro vinificazioni, e i test, oltre il grande lavoro per raggiungere il perfetto equilibrio. Si lavorava ostacolati da molte barriere, dall’incultura della qualità, alla “cultura” della quantità. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta e siamo rimasti gli unici. Non è un vanto, sono stati i tempi a modellare gli stili,  tempi che mutavano vertiginosamente con un  Nero d’Avola che si affacciava al mondo come un vino d’eccellenza. Poi sono nate le guide, irruppe in scena un personaggio che si chiamava Parker che con i suoi giudizi educava e pilotava i mercati, e così “i siciliani” che finivano sulle guide con i punteggi  più alti erano i “vinoni”, quelli strutturati, neri come l’inchiostro, alcolici, legnosi  e tanto arroganti quanto originali. Ne furono coinvolti  in questa tendenza del momento anche i celebrati francesi anche se in tempi brevi tornarono sui propri passi. Comunque il climax di tutta questa  storia resta sempre che la Sicilia entrò definitivamente nel tempio dei grandi produttori di vino e questo è quel che conta. E, aggiungo, forse il Duca Enrico ne fu il padre”. Ma oggi il Nero d’Avola come sta, come lo vede? Gli chiediamo.“C’è una grande confusione, il suo successo ha gonfiato una domanda che può essere soddisfatta solo al dieci per cento. E' facile capirne i riflessi, la cause di molte contraffazioni, miscele, imitazioni, di vini mediocri da cui ci sarebbe da vergognarsi. Ma il consumatore all’estero continua a crescere a sa scegliere. Non si spiegherebbe il continuo aumento dell’export Italia. E questo ci consola e allieva  le umiliazioni che noi tutti, assieme al Nero d’Avola, patiamo”.

Stefano Gurrera