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L'intervista

L’estratto secco e il caso De Bartoli. Moio: “I disciplinari Doc pensino al terroir”

10 Aprile 2015
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(Vigneti a Bordeaux)

Il caso De Bartoli fa ancora discutere. Come abbiamo scritto qui, un vino della storica azienda marsalese, il Grappoli del Grillo 2013, non potrà essere Doc Sicilia perchè non ha la quantità di estratto secco previsto dal disciplinare. 

Ed allora abbiamo deciso di intervistare un esperto come Luigi Moio, ordinario di Enologia presso l'università Federico II di Napoli. 

Partiamo da una cosa, se vogliamo banale, ma non scontata per tutti i nostri lettori: cos’è l’estratto secco?
“L’estratto secco è il peso del residuo fisso ottenuto dopo l’evaporazione delle sostanze volatili dal vino. In effetti, è ciò che rimane nel fondo di un contenitore, in cui c’è una quantità nota di vino, dopo l’evaporazione dell’alcol, dell’acqua e delle sostanze volatili. Dunque, è costituito dall’insieme delle sostanze non volatili del vino, ovvero acidi fissi, sali, polifenoli, glicerina, pectine e cos via. Esso dà un’idea della “corposità” di un vino. I vini rossi, ovviamente, a causa della presenza di sostanze coloranti e di tannini, hanno solitamente un estratto superiore a quello dei bianchi. In definitiva si tratta del residuo fisso del vino, esattamente come nelle acque minerali; infatti, se si legge la composizione chimica riportata in un’etichetta di un’acqua minerale compare la voce residuo fisso. Il termine estratto, purtroppo, confonde un po’ perché deriva da una vecchia terminologia della chimica merceologica”.

Quanto può essere importante per la qualità di un vino?
“Il punto è un altro. Si tratta di un parametro che, storicamente,  insieme ad altri dati analitici, può dare un contributo alla valutazione della cosiddetta genuinità di un vino. Purtroppo è solo un parametro indicativo perché suscettibile di grande variazione, poiché sono innumerevoli le variabili che ne influenzano il valore come l'andamento climatico dell’annata, la resa in uva per ceppo, la modalità di gestione della vigna, la resa per ceppo e così via. Ma, bene o male, in seguito agli innumerevoli dosaggi fatti per tanti anni da numerosissimi ricercatori che si sono dedicati alla caratterizzazione merceologica di varietà d’uva e vini nei differenti contesti pedoclimatici si è giunti a valori medi per ciascuna realtà produttiva che sono entrati a far parte dei disciplinari di produzione  delle Denominazioni di Origine Controllata”.

Perché è fondamentale il rispetto di un disciplinare secondo lei?
“È importante se si vuole adottare una strategia che preveda il rispetto del concetto di terroir, questa insostituibile parola francese che spiega con grande efficacia quanto l’uva sia il risultato di un’interazione magica tra l’ambiente che circonda ogni singola pianta di vite e il lavoro dell’uomo. Naturalmente è necessario un minimo di controllo affinché questo progetto sia rispettato, e siccome esso è al servizio di una collettività è necessario disciplinare e regolamentare il tutto. Bisogna ricordare, infatti, che i disciplinari di produzione dei prodotti tipici sono a servizio di una collettività di produttori, non sono calati dall’alto. Alla loro redazione concorrono all’unisono tutte le parti sociali e produttive coinvolte. Purtroppo dispiace che un vino sia fatto non idoneo perché presenti valori difformi dal relativo disciplinare di produzione, ma purtroppo se si vuole produrre secondo quel disciplinare, bisognerebbe conoscerlo e, ovviamente, rispettarlo. Non si può andare a cento all’ora in una strada con un limite massimo di ottanta, però si può fare se si cambia strada e se ne percorre una con un limite di centotrenta chilometri all’ora. Infatti, se voglio fare come mi pare posso stare fuori da un disciplinare che, appunto, non mi soddisfa. Non c’è proprio nulla di male: farò un vino da tavola. Anche il Sassicaia è nato come vino da tavola così come i primi straordinari chardonnay, Gaja e Rey di Angelo Gaja di cui conservo ancora gelosamente qualche bottiglia”.


(Luigi Moio)

E cosa consiglia a chi concorre alla definizione di un Disciplinare?
“La stesura di un Disciplinare di produzione è un evento collettivo. Il suo compito è dare stabilità a un modello analitico e sensoriale, che permetta a chiunque di riconoscere l’unicità di quel vino, e possibilmente, del suo luogo di origine. Così come accade in Francia. A Bordeaux per esempio è possibile distinguere durante una degustazione, un Médoc da un Pomerol. Perché? Il vino non solo prende il nome dal luogo dove è stato fatto, ma vi si identifica in modo perfetto: luogo e vino quasi non si distinguono più. Ovviamente, questo è stato il risultato di una costruzione voluta e alimentata fortemente dagli uomini e tutti devono rispettare le regole in modo tale che non possa generarsi, quella che io chiamo, confusione sensoriale. Un Pauillac, indipendentemente dallo chateaux d’origine sarà sempre più dinamico, più fresco e balsamico olfattivamente, più caratterizzato dalle pirazine e dai tannini del cabernet sauvignon, rispetto ad un Pomerol che, invece, sarà più grasso, più voluminoso, più largo, meno acido  e meno mentolato, ma  con più confettura di frutta per via del differente terreno e della maggior presenza di Merlot. E poiché da qualche centinaia di anni in questi luoghi le cose stanno così e tutti i produttori si attengono alle regole nel loro proprio interesse, gli amatori di vino di tutto il mondo hanno avuto la possibilità di memorizzare questi vini e di divertirsi a riconoscerli con la grande gratificazione emozionale che ne deriva. Il grande problema è che le Denominazioni in Italia non funzionano come in Francia. Ognuna, dovrebbe avere un unico filo conduttore che unisca tutti i vini al suo interno. Altrimenti, che senso avrebbe averle?”.

Quindi dovremmo avere la Francia come modello da seguire?
“Guardiamo alla Francia ma al momento ne siamo lontani. La forza del terroir è legata anche all’uomo che partecipa con esso a un processo di costruzione sociale ed economica. Se ciò non accade, come ho già detto, si genera solo una grande confusione sensoriale, a danno di tutti. La riconoscibilità di un terroir in Francia è radicata. Se apriamo un libro di cinquant’anni fa sui vini e ne sfogliamo uno scritto oggi, vi ritroviamo, più o meno, le medesime cose, salvo poche modifiche che non cambiano assolutamente la sostanza. Ciò dimostra che il loro punto di forza è la stabilità dei modelli sensoriali dei loro vini che fa sì che gli amatori di tutto il Pianeta possano riconoscerli ed apprezzarli nella loro unicità. Citerei l’esempio della musica: si pensi al valzer. Quanti ne esistono? Centinaia e centinaia, ma in tutti c’è una metrica e un’armonia musicale identica e riconoscibile. Ma ogni valzer è, nella melodia, differente da un altro. Così dovrebbe funzionare una denominazione”. 

F. L.