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L'intervista

Faith Willinger: cari amici cuochi lasciate perdere la Michelin, seguite il vostro cuore

26 Gennaio 2022

di Alessandra Meldolesi

Se la cucina francese ha avuto Julia Child, geniale divulgatrice delle sue ricchezze, noi italiani possiamo contare su Faith Willinger, foodwriter “toscoamericana” naturalizzata dalla lunga pratica con le nostre tavole.

Già collaboratrice delle principali testate statunitensi e autrice di fortunati volumi come Eating in Italy, è oggi un’eminenza tutt’altro che grigia, piuttosto a colori come le verdure che mette in casseruola. Alla Bob Noto per capirci, tanto che a lei si rivolge perfino Netflix, quando si tratta di carpire le dritte giuste per Chef’s Table. “Il primo contatto è avvenuto attraverso Bottura, poi mi hanno cercata per la pasticceria e ho fatto il nome di Corrado Assenza, perché ho un legame speciale con la Sicilia. In questi anni ho portato tanti americani, e anche tanti italiani, nei posti giusti”. Faith ha le idee chiare sulla cucina italiana. “Ciò che mi affascina è il senso del momento e del luogo, qualcosa che a Michelin non interessa affatto. La Michelin sta cercando di standardizzare la ristorazione di alto livello nel mondo, ma l’Italia non c’entra niente con quel modello. Il risultato è che per ottenere la stella, tutti cercano di fare le stesse cose e cucinare con gli stessi prodotti, presentati nel medesimo modo. Un’impasse da cui si esce seguendo il cuore. Internet offre ai ristoratori la possibilità di comunicare direttamente con i loro clienti, mostrando in tutto il mondo come lavorano. Guide e riviste non sono più necessarie: i cuochi sanno bene che i clienti nuovi arrivano attraverso quelli vecchi”.

Come ti sei innamorata della cucina italiana?
“Venivo da una formazione in letteratura e giornalismo, poi a un certo punto la mia vita è come impazzita. Ho sentito l’esigenza di lasciare l’America insieme a mio figlio, che aveva un anno e mezzo, e sono arrivata in Italia, inizialmente a Roma. La scoperta della cucina è stato uno choc, perché conoscevo solo quella italoamericana. Invece ho assaggiato il vero Parmigiano, ben diverso da quello nel barattolo; la vera mozzarella, non la solita gomma… Non riuscivo a capacitarmi, tanto che ho preso la penna e ho scritto a Julia Child: “Voglio fare qui ciò che hai fatto per la Francia”. Lei mi ha consigliato di non iscrivermi a una scuola, ma cercare uno chef in gamba e mi ha chiesto di tenerla informata. Così mi sono rivolta al presidente dell’Accademia della Cucina Italiana e sono arrivata da Silvano Paris, che mi ha preso in cucina come stagista a mezza giornata. Avevo 25 anni e mi sembrava fantastico. Ho assistito e preso parte a tutto quello che facevano, imparando a eseguire le ricette romane, che adoro. Nel frattempo ho anche conosciuto un uomo fantastico, che poi è diventato mio marito, toscano esigente che sa riconoscere una cucina semplice ma buona. È stato lui a farmi sentire l’olio nuovo. “Ma questa roba cos’è?”, mi sono chiesta. Con Julia Child i rapporti non si sono mai interrotti, quando veniva in Italia passava sempre a trovarmi per mangiare la trippa, perché voleva andare in trattoria, non nei ristoranti raffinati dove la portavano tutti. Dopo Paris ho compiuto un’altra esperienza in cucina con Andrea Hellrigl; lui mi ripeteva che non sarei mai stata brava come lui, che sapeva trovare la migliore materia prima, così mi ha messa su quella strada. Tanto che in casa ho sempre ingredienti formidabili, coi quali vinco facile. Poi ho incontrato i grandi chef, i Bottura, gli Alajmo, un’Italia eccezionale, che mi ha accolto nelle sue cucine in un momento storico diverso, quando non c’erano tanti stagisti. Massimiliano è in assoluto lo chef più brillante che abbia mai conosciuto, cucina con l’entusiasmo di un bambino. È sempre aderente al tempo e al luogo, ma l’ingrediente principale dei suoi piatti è la curiosità, perché vuole sempre sapere, assaggiare, provare. Lui dice che sono sua madrina”.

La Sicilia in tutto questo?
“Mi manca in modo drammatico, non ricordo di aver mai passato così tanto tempo lontano dall’isola, da quando vivo in Italia. Ma ho sempre con me i capperi o i vini di Arianna Occhipinti o quelli di suo zio, Giusto Occhipinti patron della Cos, gli oli siciliani, che adoro, e le mandorle di Corrado Assenza, che sono semplicemente sublimi con un bicchiere di vino. I siciliani, circondati dal mare, hanno tenuto sull’isola tutto il necessario e fra un pasto e l’altro passano 25 secoli di storia. Tanti conoscono la cipolla di Giarratana, ma ce ne sono altre due incredibili, la cipolla Paglina di Castrofilippo e quella rossa di Partanna; poi l’aglio di Nubia. Cibi da poveretti, che invece sono importantissimi. Ho avuto la fortuna di incontrare due guide vere nel mondo del vino, Ignazio Miceli e Alessio Planeta”.

In questi anni quanto è cambiata la considerazione della cucina italiana all’estero? Numericamente è la più esportata, davanti alla cinese, ma forse sconta un immaginario casereccio.
“Direi che è cambiata moltissimo, soprattutto grazie al turismo. Sono stati gli americani arrivati in Italia, a portare e far conoscere i gusti veri oltreoceano; poi sono arrivati gli importatori e Oscar Farinetti. Frequentando locali di qualità come il Cibreo, le trattorie e le pizzerie giuste hanno creato una domanda anche in patria per qualcosa che prima non c’era. Quindi è fondamentale per tutto il comparto che la gente possa tornare in Italia e assaggiare di persona. Mi viene in mente Ruth Reichl, quando ha provato un Parmigiano modenese da vacche bianche e ha esclamato: “Wow, questo è il formaggio più buono del mondo””.

È il problema dell’italian sounding…
“L’America è ancora piena di paste orribili, formaggi falsi, oli aromatizzati al tartufo e quant’altro, quando l’extravergine è oliva. Con un po’ di cultura il prodotto autentico si riconosce sempre, ma non sarà mai per tutti. In compenso porta più salute e meno fatica in cucina”.

Quali sono a tuo giudizio le principali differenze fra palato americano e italiano?
“Direi che il primo tende a mettere insieme molti più gusti e ingredienti, mentre il secondo è più snello. In America nel piatto ci sono sempre 5 o 6 cose più del necessario. Io preparo a casa anche piatti americani, ma italianizzati. Per esempio i brownies sono un dolce favoloso, ma perché impiegare il burro fuso al posto dell’olio? Oppure il cornbread, una torta di mais che preparo sempre con l’olio. Faccio la cucina che piace a mio marito toscano, non abbiamo burro in frigorifero. Piuttosto giochiamo con una bella selezione di oli, umbri, toscani e appunto siciliani. Hanno una complessità incredibile. Beviamo vini di tutte le regioni, rigorosamente da vitigni autoctoni, che si tratti di Verdicchio, come quello di Villa Bucci, o ancora Chianti Classico o Brunello di Montalcino. Gli americani hanno smesso di cercare cabernet e chardonnay, tanti ristoratori si sono battuti per avere vini italiani e sono arrivati bravi importatori. Ormai si trova praticamente di tutto. La Francia invece praticamente non esiste più in America: restano una manciata di ristoranti, tutti costosissimi, mentre la cucina italiana copre ogni fascia, dalla trattoria al gourmet”.

Quali sono i tuoi piatti forti?
“Prediligo le verdure, che compro da contadini della zona in “prebiologico”, condite con un po’ di olio e un po’ di fantasia. Ieri sera per esempio ho avuto un famoso oste a cena, Mauro Lorenzon. Gli ho preparato la fettunta al cavolo nero e dei gigli col cavolfiore arriminato, le passoline delle Eolie e le mandorle di Assenza. Piatti poveri ma buonissimi. E lui in abbinamento ha pescato dalla mia riserva polverosa un Biondi Santi del 1990. Emozionante”.