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La degustazione

Malanotte del Piave Docg, come i produttori hanno domato la loro uva “rabbiosa”

24 Febbraio 2021
Antonio_Bonotto Antonio_Bonotto

di Michele Pizzillo

C’è una storia mista a leggenda dietro il nome del vino Malanotte del Piave Docg che parte dalla trentina Val di Sole e approda nel trevigiano, a Tezze di Piave.

Cioè, da dove ha origine la famiglia dei Malanotte, commercianti di lana che nel 1670 acquistano i primi terreni appunto a Tezze di Piave. La leggenda vuole che il nome di questa famiglia derivi dalla “notte dell’orso”, quando un cavaliere inseguito da un orso nel bosco non trova altra via di salvezza che rifugiarsi su un albero in attesa del giorno. E, ovviamente, è una notte di paura perché l’orso non si allontana dai piedi dell’albero sino al sorgere del sole. A Tezze, comunque, i Malanotte costruiscono una grande villa, la filanda, stalle, granai, case dei coloni e successivamente una cantina per dedicarsi anche alla produzione di vino che riescono a vendere oltre i confini locali. Da qui, poi, partì la “Bellussera” o “sistema a raggi” o “sistema Bellussi”, la forma di allevamento della vite messa a punto dai fratelli Antonio Matteo e Girolamo Bellussi alla fine dell’800. Un sistema inedito ed innovativo che collegando tra loro i tutori di legno (scarazze) dello stesso filare con quelli del filare adiacente tramite fili di ferro fu possibile massimizzare l’esposizione solare di foglie e grappoli, sollevando da terra le viti anche per ridurre gli effetti nefasti delle gelate.

(Antonio Bonotto)

Un allevamento che venne ritenuto addirittura monumentale e, oltretutto, il “matrimonio” delle viti con gelsi o altri alberi da frutto, permetteva di ricavare una produzione secondaria utile ad incrementare il reddito famigliare. Il sistema venne più volte modificato e perfezionato nel corso degli anni con l’obiettivo di ridurre i costi e la manodopera necessaria. La Bellussera oltre a diffondersi soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, diventò anche la forma di allevamento per antonomasia del vitigno Raboso. Tanto da fare del borgo Malanotte il cuore del vino Raboso, che già negli anni ’60 prevedeva l’utilizzo di almeno il 30% di uva appassita non meno di tre mesi. Una scelta tecnica che a mano a mano che si andava perfezionando, permetteva di ottenere un vino più morbido e che rispondeva meglio ai gusti dei consumatori. E, sembrò naturale lasciare il nome Malanotte del Piave al momento del riconoscimento della Docg.

(Stefano Traverso)

Nel 2011 il Consorzio di Tutela Vini del Piave Doc assieme al Consorzio Volontario Tutela Vini Doc Lison Pramaggiore, partecipa alla creazione del Consorzio Vini Venezia, racchiudendo così al proprio interno le cinque denominazioni Piave Doc, Malanotte del Piave Docg, Lison Pramaggiore Doc, Lison Docg e Venezia Doc e raggiungendo oltre 2.000 soci produttori. In questo grande consorzio il Malanotte del Piave, con una produzione media di 50.000 bottiglie, è una chicca – sottolinea il direttore del Consorzio, Stefano Quaggio – che ha organizzato una degustazione digitale per presentare i vini di tre cantine, Pizzolato, Ornella Molon e Bonotto delle Tezze, illustrati dagli stessi produttori (Settimo Pizzolato, Stefano Traverso e Antonio Bonotto). Oltre ad incaricare il sommelier Gianpaolo Breda di illustrare l’importanza di questa denominazione per una migliore conoscenza del vino Raboso che una volta era quello che movimentava il più importante mercato vinicolo del mondo, il porto di Venezia. Ed è proprio Breda che spiega come l’uva “rabbiosa” – così definita per la sua asperità e il carattere di durezza -, a partire dagli anni 90 del secolo scorso, tra il ricorso all’appassimento e il sapiente uso del legno, diventa più gentile e più appetibile ad un mercato che cerca vini davvero esclusivi, oltre che di lungo invecchiamento, tanto da poter resistere 40-50 anni. Fra i pionieri di questa sorta di rivoluzione ci sono Settimo Pizzolato con la scelta di produrre solo vini biologici e vegani nonché Ornella Molon con il marito Giancarlo Traverso, che Antonio Bonotto ha pubblicamente ringraziati prima di presentare il suo vino. Questi i vini degustati.

Il Barbarossa Malanotte del Piave Docg 2016 – Cantina Pizzolato – Villorba (Treviso)

Il nome è una sorta di omaggio ai Pizzolato che hanno tutti la barba rossa. E Settimo ci scherza un po’ su questa loro caratteristica, con una bella etichetta molto lineare – con la sua immagine stilizzata – di un vino biologico ottenuto da uve Raboso di cui il 30% appassite che si affina per ventiquattro mesi tra botti e barriques a cui seguono ulteriori sei mesi di bottiglia prima della messa in commercio. Il colore è rosso rubino con riflessi violacei. Intenso ed ampio lo spettro olfattivo tra sentori di prugne secche e marasche, note speziate di vaniglia e cannella e accenni di tostato e di liquirizia. In bocca è austero, decisamente pieno e corposo e davvero avvolgente, con tannini morbidi e acidità e morbidezza in primo piano che insieme ai sentori fruttati e accenni amaricanti, lasciano la bocca pulita.

Malanotte del Piave Docg 2016 – Bonotto delle Tezze – Vazzola (Treviso)

Antonio Bonotto è fra i vignaiuoli che hanno saputo prima domare e poi valorizzare l’uva “rabbiosa” come dimostra questo Malanotte di gran classe. Il colore è rubino tendente al grato, con profumi decisamente fruttati e sostenuti da liquirizia, cuoio e note speziate. Appassimento di parte delle uve e la fermentazione in legno di rovere dove poi riposa per 24 mesi, permettono al vino di offrire struttura, calore e freschezza unitamente ai sentori del bouquet, la complessità delle note di arancia sanguinella, cioccolato, una bella acidità e tannino vellutato che nel loro perfetto equilibrio rendono ancora più avvolgente il sorso che lascia la bocca pulita.

Piave Malanotte Docg 2014 Ornella Molon – Salgareda (Treviso)

Il Malanotte è una delle grandi proposte di questa dinamica realtà familiare che Ornella e il marito Giancarlo Traverso, adesso affiancati dai tre figli, ne hanno fatto pure un punto di attrazione enoturistico del territorio. Il vino è ottenuto da uve Raboso, in parte appassite, che matura 24 mesi in barrique usate e 12 mesi in botti di rovere da 50 hl. Il colore è rubino quasi impenetrabile. Intenso il profumo prevalentemente di marasche e lamponi con note speziate con le piccantezze del pepe nero. In bocca attacco di gran classe, vigoroso con tannino che si fa sentire ma – evidenzia Breda – in perfetto equilibrio con la grandissima freschezza che lo caratterizza. Eppure la vendemmia 2014 non è stata facile. Sembra che sia un vino che non vuole invecchiare e, quindi, può essere conservato ancora per qualche decennio.