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Il caso

“Schigi” e i birrifici artigianali: “Vendersi ai colossi non vuol dire rinunciare alla qualità”

27 Aprile 2016
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Luigi “Schigi” D’Amelio è un’enciclopedia vivente della birra. Sa tutto. O quasi. “Ma io sono Schigi – dice sorridendo – non un consumatore qualsiasi”. E questo fa la differenza.

Perché se a molti è sfuggita l’acquisizione di Birra del Borgo da parte del colosso belga Ab Inbev (si parla di una cifra tra i 20 e i 30 milioni di euro), di certo non agli addetti ai lavori. Che hanno commentato, magari anche sparlato. E c’è chi, come rivelano alcuni “amici”, ha un po’ pure rosicato. Già, perché, l’acquisizione di Birra del Borgo, storico e tra i più importanti birrifici artigianali italiani ha destato parecchie perplessità. “Questo perché Leonardo (si riferisce a Leonardo Di Vincenzo, oggi AD di Birra del Borgo, ndr) è tra i fondatori della birra di qualità in Italia – dice Schigi – il paladino dell’ambiente romano che da sempre è stato il movimento più importante su tutto il territorio nazionale. Il 50 per cento della birra artigianale italiana si beve a Roma”.
Ma la vendita, anche se in realtà le cifre rimangono segrete, “ha significati importanti – spiega Schigi – Leonardo ha lanciato dei segnali un po’ cupi che comunque vanno raccolti ed interpretati”.

Perché è vero che il mondo della birra artigianale è sempre in crescita da 10 anni a questa parte, ma è anche vero che la concorrenza europea non è stata a guardare. “Basti vedere come molti nomi noti si sono ingranditi e adesso sono in grado di mettere sul mercato grandissime quantità di birra. Attenzione: la birra non è come il vino. Si possono fare grandi quantità mantenendo sempre un elevato standard di qualità. Per il vino, invece, non è così”.
Insomma secondo Schigi, Birra del Borgo ha dato un’occhiata al mondo commerciale “e Leonardo, da persona intelligente qual è, avrà intuito che comunque l’export non è un pozzo senza fondo e che la situazione del mercato diventa sempre più complessa perché ci sono tanti concorrenti ben attrezzati”, spiega Schigi.

Da Birra del Borgo garantiscono che negli accordi c’è scritto che nulla cambierà nella creazione, produzione e sviluppo con la ricerca di standard ancora più elevati, attraverso investimenti ad hoc. Tra l’altro la produzione rimarrà a Borgorose. La scelta è stata fatta per avere spazio e conforto per i progetti in cantiere di oggi e futuri. “Se devo dire la mia – dice Schigi – credo che Leonardo avrà colto l’occasione al volo per avere una sicurezza economica. Ha una dozzina di impiegati ed ha fatto una scelta di coscienza tutelando i suoi lavoratori. Può essere criticato o meno. Conosco persone che dicono che non venderebbero nemmeno fino alla morte. Ma ci sono anche colleghi che rosicano. Eccome”.
Non c’è pericolo, dunque, per la produzione di birra artigianale italiana: “Assolutamente no. Credo che le cose vadano analizzate e sviscerate caso per caso. Sono chiaramente stupito dalla scelta di Leonardo, ma i rumors erano in giro da mesi. D’altronde tutti abbiamo visto che questo processo avviene già da tempo negli Stati Uniti. E come ogni cosa americana, arriva dopo qualche tempo anche da noi. Leonardo ha fatto rumore perché è il primo”.
 
Adesso tutti gli occhi sono puntati sulla prima produzione firmata “Ab Inbev”: “Prima di sparare sentenze voglio assaggiare la loro birra – dice Schigi – Io assaggio tutto prima di gettare eventualmente la birra nel lavandino, compresa quella venduta nelle lattine del supermercato. Se la birra fa schifo, fa schifo. Punto e basta. Non è che se è artigianale vuol dire necessariamente che sia buona. Bisogna vedere la politica aziendale. Ma sono sicuro che Leonardo non penserà solo al profitto. Ha un nome da difendere. Io gli auguro, da amico e collega, che vada tutto come lui pensa”.
Il rischio è che si crei un effetto domino, con i mini birrifici che cadranno nella rete dei grandi colossi: “Non credo – dice Schigi – Ho sentito qualcuno dire “ma perché non hanno preso me”. Segno che la cosa non è vista come un fatto negativo”.

Per Schigi la dicitura artigianale, che non può essere scritta in etichetta “perché non vuol dire niente”, è importante, ma lascia il tempo che trova: “E’ fondamentale quello che metti in bottiglia – dice – Oggi i consumatori sono magari anche disposti a spendere qualche centesimo in più, ma se comprano una birra dieci euro, vogliono che sia buona. Cioè, gli deve piacere. Qui sta il nodo. Chiamiamola come vogliono loro, mettiamogli anche doppio malto (altro nome che non esiste), ma se gli piace e la comprano ben venga”.
Insomma, per Schigi non si può prescindere dalla qualità: “Se aumenti la produzione, ma usi scorciatoie per abbassare i costi di produzione, usi succedanei, non metti luppoli buoni, fai la pastorizzazione, hai perso in partenza. Il futuro è l’altissima qualità. D’altronde non tutti i consumatori sono laureati “in birra”: loro scelgono un determinato prodotto perché gli piace, non perché sanno com’è fatto”.

G.V.