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Il dibattito

Il gusto italiano per il mondo: ecco cosa dicono gli esperti sull’export

24 Maggio 2013
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Da sinistra Fabrizio Zanetti, Fabio Carlesi, Rolando Chiossi,
Antonio Rallo in un momento del dibattito

La Cina orizzonte per il comparto agroalimentare nazionale. Si, ma quanto è vicina?

Ancora “molti domandano se l’Italia produce vino”, usando le parole di Francesco Zonin, vice presidente di Casa Vinicola Zonin, intervenuto al forum il Gusto Italiano per il mondo tenutosi stamane a Palermo presso la sede centrale di Banca Nuova. Oppure “domandano se la Ferrari sia Italiana”, come ha riferito chi il mercato cinese lo conosce bene, Massimo Ceccarelli il wine and consultant per il Paese della Grande Muraglia e che ha attivato un osservatorio su questa piazza con il suo blog Vaffancina.it, anche lui tra gli esperti, economisti, uomini e manager del vino che sono intervenuti al dibattito. O ancora “il vino lì  (in Cina) non si sa nemmeno come servirlo”, ha detto Federico Castellucci, direttore generale Oiv.

Quelle di Zonin, di Ceccarelli e di Castellucci sono le testimonianze che dipingono lo scenario reale. Non si fa che parlare di Made in Italy in Cina, di quote da erodere alla Francia che domina quella piazza da vent’anni, qualche “bandierina” certo la si è piantata, però a quanto pare non basta.  La Cina è stata presa come caso emblematico, come traguardo di riferimento per analizzare il Sistema Italia che varca i confini diretta verso i nuovi mercati. Per alcuni prodotti dell’eccellenza italiana sembrano essersi aperti varchi importanti, ma tutte le personalità presenti all’incontro, all’unanimità si sono dichiarate concordi sui deficit che ancora caratterizzano il comparto nazionale. Primo fra tutti, la mancanza di un Sistema Paese, espressione inflazionatissima in quest’ultimo periodo, ma questione urgente da definire e mettere in moto e chrichiede l’impiego di una business intelligence vocata proprio a questo. “Il momento è propizio”, ha assicurato Stevie Kim, managing director di Vinitaly International, starebbe passando il periodo del vino francese, la scena si presterebbe ad essere dominata da quello italiano, “però il mercato va affrontato con una nuova mentalità e metodologia”. Proprio la Kim sta investendo su nuovi campi, quelli offerti dalla rete e dai social network, le frontiere del business del prossimo futuro. “La tecnologia avvicina i continenti”, ha detto mentre dimostrava alla platea il funzionamento della app cinese più popolare, che conta olte 700milioni di utenti, WeChat. Piattaforma su cui è approdato Vinitaly per interagire con il mercato e i consumatori. “Dobbiamo chiederci come il vino comunica ai giovani, stiamo perdendo le nuove generazioni, non le abituiamo al vino”, ha ribadito Francesco Zonin. La strada è quella tracciata dalla Francia anzitempo: unico linguaggio;  stile ben preciso;  coerenza. Le carte, affinché l’agroalimentare italiano possa raddoppiare il valore, ci sarebbero tutte, ma solo a una condizione. Lo ha ribadito Fabio Carlesi, segretario generale Enoteca Italiana: “Dobbiamo portare avanti un progetto di contaminazione”, come per esempio l’abbinamento del vino italiano alla cucina cinese. Per Sergio Soavi, dirigente Coop Italia “si deve proporre un unico pacchetto con un unico stile”. Concorde Fabrizio Zanetti, giovanissimo ad di Hausbrandt: “Vince l’azienda Italia che vende molti prodotti in maniera coordinata”. Un cambio di strategia che non può prescindere però dalle relazioni: “Nei confronti dei consumatori bisogna proporsi in maniera più completa e interagendo direttamente con loro”, ha detto Dario Cartabellotta, assessore all’Agricoltura della Regione Siciliana. Ci si arma alla buona per affrontare i futuri mercati quando “ancora non sappiamo che fine fa il vino che vendiamo in Cina”, ha sottolineato Rolando Chiossi vice presidente di Gruppo Italiano Vini.

La mission è quindi chiara: presidiare il mercato. “Se non lo facciamo rischiamo di perderlo – ha aggiunto Giancarlo Voglino direttore Istituto Grandi Marchi e titolare della società Iem che si occupa di eventi promozionali all’estero -. Non dobbiamo parlare solo di promozione. Si deve puntare sulla formazione”. Di carne sul fuoco insomma ne è stata messa tanta in questo lungo dibattito, dove è intervenuto anche Federico Quaranta della trasmissione di Radio RaiDue Decanter. Ha parlato di bellezza però veicolata da un sistema che non funziona. “Meno parole, più fatti – ha detto -. Cambiamolo questo sistema. Dobbiamo raccontare bene l’Italia e in maniera corporativa. Non è poi possibile che il Ministero dell’Agricoltura, usando la metafora del gioco delle figurine, sia considerata la figurina meno importante, l’ultima”. In questo quadro di analisi emerge una criticità forte, almeno lo è tale nell’ottica appunto dell’esportazione e dell’efficacia comunicativa del Brand Italia: l’urgenza di una semplificazione, di uno snellimento. Troppe denominazioni, troppi soggetti di tutela, troppi nomi, troppe tipologie pesano sul paniere italiano. Il Bel Paese vanta un know how che altri non hanno e che a tutti gli effetti è il suo asso nella manica: il cibo. “Si conferma lo strumento più efficace per creare cultura del made in Italy all’estero e ambasciatori privilegiati devono essere i cuochi”, hanno sostenuto con convinzione Andrea Ribaldone, chef consulente a Tokyo per Eataly, e Alessandro Pipero, patron dello stellato Pipero al Rex di Roma, anche loro a Palermo. 

Al dibattito sono intervenuti il produttore Gianluca Bisol, Vincenzo Zampi docente alla Facoltà di Firenze, Carlo Flamini direttore del Corriere Vinicolo che ha partoil dibattito commentando gli ultimi dati aggiornati sul mercato e sull'export, Piero Sardo presidente della Fondazione per la biodiversità di Slow Food, Antonio Rallo, presidente Assovini Sicilia, Paolo Angius, vice presidente Banca Nuova.