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Il dibattito

Tutela Made in Italy, cento miliardi di euro che se ne vanno

07 Ottobre 2013
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I disciplinari sono troppi, per promuovere e difendere il made in Italy nel mondo si dovrebbe puntare su un unico brand e sui distretti.

E’ una delle strategie su cui personalità del settore agroalimentare e produttori discutono da tempo e che è stato uno dei temi caldi all’incontro Tastethe  Mediterranean che si è tenuto a Roma al Centro Congressi Cavour promosso  dal Ministero delle Politiche Agricole, Forestali e Alimentari. Occasione per fare il punto sul valore economico della Dieta Mediterranea al quale hanno partecipato i rappresentanti del Ministero e dei Paesi firmatari Croazia, Spagna, Portogallo, Grecia, Dalmazia, oltre all’Italia, e i referenti delle Università di Zagabria, Barcellona, Ca’ Foscari di Venezia, Università Tor Vergata di Roma, l’Università di Messina e della Calabria.

L’Italia è il Paese che vanta ben 4800 solo di prodotti certificati, ed è quello che ogni giorno si ritrova più di tutti gli altri da un lato a difendere con il coltello tra i denti il proprio patrimonio sullo scenario globale, oltre che in casa, e dall’altro a mobilitarsi per promuoverlo. Non bastano le azioni di denuncia e controllo ad opera di associazioni ed enti preposti al controlli, la questione della tutela del Made in Italy passerebbe prima di tutto e soprattutto dal fare massa critica sotto una unica immagine territoriale fortemente identitaria, in modo da contrastare la confusione e la speculazione che dilagano sulla produzione italiana nel resto del mondo.  O quanto meno da contenere una comunicazione sbagliata che, di fatto, stende il tappeto rosso a chi con il marchio Italia vuole fare business,  e tra questi anche gli italiani stessi, come si può desumere dal servizio della Cnn mandato in onda al tg e che documenta la preparazione della mozzarella in un caseificio di Dubai di proprietà di imprenditori italiani. Episodio a cui si è riferito Giampietro Comolli, fondatore dell’Osservatore Economico Italiano e relatore alla tavola rotonda. “Se questo è il risultato di cinquant’anni di disciplinari di produzione e di una Europa che ha voluto  dare oneri ai produttori per poi far accadere tutto questo allora urge immediatamente che si riveda il valore e la riscrittura stessa dei disciplinari – puntualizza -. Si deve agire con decisione a livello normativo per marcare la distinzione tra Italian Style e Made in Italy. Basterebbe prendere come riferimento  la normativa del vino che riguarda l’uso del termine vitigno sull’etichetta e poi indicare che produzione, lavorazione, stagionatura e invecchiamento delle materie usate siano svolte nell’ambito del territorio italiano”.

Un ferro dietro la porta che frenerebbe la crescita di un cannibalismo a doppio filo, del 10% l’anno, ad opera dei grandi gruppi stranieri della grande distribuzione e delle multinazionali che stanno facendo bottino di marchi italiani. “Auchan, per esempio, nei suoi punti vendita in tutto il mondo – prosegue sempre Comolli  – sta piazzando una quantità enorme di prodotti che non sono totalmente italiani accanto a quelli Made in Italy. Ha capito che la nostra bandiera frutta. Tutto il sistema agroalimentare Italiano vale oggi 250 miliardi di euro, in termini di valore diretto e indiretto –  spiega ancora Comolli –  cioè in termini del valore della commercializzazione, della distribuzione, dell’occupazione, dei canali di vendita, dei sistemi di carattere promozionale ed economico che ruotano attorno ad esso, e quindi anche l’enoturismo, la gastronomia. Una cifra pari al pil di un Paese che occupa il trentesimo posto della classifica mondiale. L’agropirateria è arrivata a valere 65 miliardi di euro e la vendita di prodotti  tricolore all’estero da parte di aziende straniere e italiane altri 35 miliardi”. I calcoli su quanto perde il vero Made in Italy sono facili e anche pesanti.

C’è poi la questione della valorizzazione delle specificità territoriali e direttamente legata a questa la diffusione del concetto di Dieta Mediterranea non come mero elenco di materie prime e ricette, ma come espressione di civiltà e cultura alimentare caratterizzata da peculiarità ben precise che sono diverse da nazione a nazione, un patrimonio ricco di biodiversità che va difeso a tavola. “Quello che consigliamo ai Paesi non europei come Marocco e Tunisia e a quelli neo entrati come la Croazia, è di partire subito con la tutela dei prodotti agroalimentari puntando appunto sulla massa critica che il mondo globale richiede, e quindi sull’identità territoriale e di non fare invece gli stessi errori che ha commesso l’Italia”, conclude Comolli. 

M.L.