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Il personaggio

Lo chef Bonetta Dell’Oglio ha la ricetta per la carne: “Mangiarne meno, ma di altissima qualità”

16 Novembre 2016
Bonetta Bonetta

di Clara Minissale

Per anni è stata l’alfiere dei grani antichi siciliani, instancabile sostenitrice della qualità del cibo che si porta in tavola, a cominciare dal pane, creatrice della “Rivoluzione in un chicco”, un movimento culturale nato per promuovere i grani autoctoni.

Oggi, che su grano e derivati c’è un po’ più di attenzione, lei sposta la sua sulla carne rossa. Il nuovo progetto di salute e consapevolezza a tavola di Bonetta Dell’Oglio si chiama “Animali felici”, un titolo che non ha bisogno di molte spiegazioni. “La mia idea – spiega la chef palermitana – è che di carne se ne mangi sempre meno, ma che sia di altissima qualità. Per questo ho iniziato a lavorare con un allevatore di Vizzini, Giuseppe Grasso, che è attento alla qualità della vita dell’animale prima e alla carne che si porta in tavola dopo. Dobbiamo iniziare a chiederci la storia di un uovo o di una fetta di arrosto e renderle giustizia economica”.

 
(Fesa, castagne, vinacce e cotogne)

Quelli con cui Bonetta entra in contatto sono animali che vivono liberi nei pascoli biologici e mangiano solo sementi autoprodotte. “Questi bovini si muovono molto – dice – hanno una muscolatura importante e la loro carne necessita di una lunga frollatura. Per questo nel progetto abbiamo inserito #40 giorni, ovvero l’idea che si debbano utilizzare carni con frollature più lunghe di quelle alle quali siamo abituati in Sicilia, che durino almeno 40 giorni, appunto”. Ed elenca i punti imprescindibili se si vuole carne di qualità: animali con le corna, no al taglio; no alla castrazione; granaglie e fieno autoprodotti, figli con le madri fino a 10 mesi; pascoli liberi; transumanza laddove necessita; libertà in senso assoluto, che sia ovino, caprino, vaccino o avicolo; libertà riproduttiva (no inseminazione artificiale); macellazione nel rispetto totale dello stress provocato; trasporti corti; no allevamento intensivo ma estensivo; consumi ridotti ma qualità elevatissima; rispetto dei costi più alti; carni frollate, digeribili.


(Tartare e patate)

E poi utilizzo di parti meno conosciute come la pancia, il diaframma, la rosetta, il ritorno a sapori e sughi di antica memoria che rischiano di essere dimenticati, soppiantati da mode che arrivano da lontano e che poco hanno a che fare con la nostra cultura. “Penso ai nostri lacerti – aggiunge la chef – o ai nostri sughi di carne dal sapore rassicurante. Utilizzando carni nostrane con una lunga frollatura, possiamo dimostrare di avere un ottimo prodotto a patto che parta dal benessere dell’animale”. E dopo i grani antichi mai abbandonati e la carne, toccherà alle uova “perché – conclude – non si è mai abbastanza consapevoli di quello che si porta in tavola ogni giorno”.