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Il personaggio

Angelo Gaja: la mia famiglia, il vino, le Langhe e il mio pensiero sulla politica

30 Ottobre 2016
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Da langhetto a langhetto Aldo Cazzullo del Corriere della Sera pubblica una conversazione con Angelo Gaja. Cazzullo di Alba, Gaja di Barbaresco li immaginiamo quasi quasi a parlare in dialetto. Ed è una chiacchierata tra piemontesi ampia, franca, a 360 gradi sulla famiglia di Gaja, il vino, la spasmodica ricerca della qualità, le Langhe, la politica, i grillini e il referendum.


(La famiglia Gaja al gran completo – foto Corriere.it) 

Fare. E’ una parola che Angelo Gaja ripete spesso nel corso dell’intervista rilasciata al collega del Corriere della Sera Aldo Cazzullo.

Anzi dice: “Fare; saper fare; saper far fare; fare sapere”. E’ questo il mantra di Gaja, che gli ha insegnato la nonna francese, quando il vignaiolo aveva 11 anni. Perché a noi italiani manca l’orgoglio del lavoro ben fatto, un orgoglio “che dovremmo ritrovare”, spiega Gaja. Il produttore osserva le ultime uve che arrivano in cantina. E anche una comitiva giapponese che arriva in visita nella sua struttura: “Se si pagano 250 euro a persona? Non è vero – dice Gaja – se ne pagano 300 a persona. Ma tutti i soldi vanno in beneficenza”. Gaja racconta il suo passato, sua nonna Clotilde Rey che veniva dalla Valle della Maurenne, in Savoia e il nonno Angelo, che commerciava ovini e caprini al mercato di Susa e, naturalmente, vendeva vino. “Nonna Clotilde era come Jorge del Nome della Rosa: non rideva mai. Fu lei a insegnarmi, in francese, la massima che ha guidato la mia vita: faire, savoir faire, savoir faire faire, faire savoir. Il lavoro. L’arte del lavoro. La capacità di trasmettere il senso di un progetto comune: tutti i miei collaboratori diventano anche loro artigiani; non ho stagionali, sono tutti fissi”, dice Gaja.

Gli studi alla scuola enologica prima, poi economia e commercio a Torino, una laurea che è arrivata molto tempo dopo, perché “più che all’università ho imparato nella vigna”, dice. Ha imparato a zappare, concimare, innestare, dare il verderame, “e queste cose tra i banchi non te le insegna nessuno”. Fu il padre Giovanni a spingerlo nella giusta direzione: “Mi disse di produrre di meno per alzare la qualità. Un concetto un tempo impensabile”. Guarda alla scienza con interesse, “ma non perdo mai di vista la tradizione”, dice presentando il suo staff: due entomologi, due botanici, un geologo e altri ricercatori. Poi dice: “Il mio vino è troppo caro? Nessuno è obbligato a berlo. Ci sono ottimi vini che costano molto meno”.

Le Langhe sono tutto per Gaja che dà una stoccatina ai “colleghi” toscani: “Qui non ci sono aristocratici, come in Toscana. Siamo tutti contadini. Il mitico Bartolo Mascarello diceva che i vigneti sarebbero finiti tutti ai ricchi: si sbagliava. A Barbaresco ci sono 650 abitanti, 70 viticoltori, 35 produttori, più la cantina sociale, che lavora benissimo. Abbiamo un’antica cultura liberale, che ci viene da Cavour, che è stato anche l’inventore del barolo, e da Luigi Einaudi: l’idea che il denaro pubblico è più importante del tuo, che si può fare impresa senza aspettare lo Stato. Ogni mattina, all’uscita dalla messa, Einaudi si fermava a parlare in dialetto con i contadini, dava consigli sulle colture e sulla contabilità, ascoltava i loro sistemi; fino a quando donna Ida non lo trascinava via. Il nostro difetto? Siamo anche un po’ matti”.

E poi si parla dei piemontesi famosi del momento. Farinetti, per Gaja, “è stato il primo a cogliere nell’agroalimentare la simpatia che l’Italia riscuote nel mondo. Lo stimo, soprattutto ora che ha smesso di andare per talk-show a fare sempre l’elogio di Renzi”. Carlin Petrini? “Un uomo straordinario. Ha anticipato la protezione della biodiversità e l’ha esportata in tutto il mondo, compresa l’Africa”. E Briatore: “Per i miei gusti è un po’ troppo sopra le righe”. “Al referendum voterò sì, rispettando chi non la pensa come me – dice Gaja – I Cinque Stelle? Fanno bene a insistere sui costi della politica; ma al loro interno hanno sia la destra sia la sinistra, e questo li rende inadatti a governare, come a Roma”. Legge nove quotidiani al giorno, non ha la tv e non naviga su internet: “La mia cronaca viaggia con 24 ore di ritardo”.

Parentesi sul clima che cambia: “Ormai si vendemmia venti giorni prima – dice Gaja -. Ogni anno le gemme, i germogli, i fiori anticipano. Non mi ricordo un settembre e un ottobre più caldi di questo. Per il nebbiolo è un vantaggio; per le uve a maturazione precoce è un problema; per la terra è uno choc. Ma vedo tra i giovani un sentimento nuovo. Loro sono migliori di come li pensiamo; le ragazze poi sono formidabili. Avvertono un dovere verso il pianeta. Anche l’agricoltura deve fare la sua parte: abbattendo i veleni, lottando contro i parassiti in modo integrato tra il biologico e il convenzionale. Non basta custodire; dobbiamo migliorare. Essere più attenti, più responsabili. Se ci riusciremo, noi italiani possiamo prenderci ancora moltissime soddisfazioni”.

C.d.G.