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Il personaggio

Josko Gravner a Marsala. “Niente barrique, solo anfore. E uva buona. Ecco il mio vino”

23 Marzo 2016
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Una “lezione” da tutto esaurito per il filosofo-vignaiolo che ha raccontato il suo modo di vedere l'enologia


(Nino Barraco, Gabriele Zanatta e Josko Gravner)

di Davide Visiello

Neppure posti in piedi nella sala conferenze della biblioteca all’interno del Complesso San Pietro a Marsala: circa duecento persone tra produttori vinicoli, appassionati e studenti hanno partecipato ieri sera all’incontro col filosofo vignaiolo Josko Gravner.  

 E Gravner non si è certo risparmiato: per oltre due ore è stato un fiume in piena. Ha raccontato la sua storia, le sue idee, il suo modo di fare vino ai presenti estasiati dalle parole e dai concetti del grande artigiano friulano di origini slovene.
La conferenza è stata introdotta da Nino Barraco, produttore vinicolo e assessore (dimissionario proprio ieri, ne parliamo qui) del Comune di Marsala.
Sollecitato dalle domande di Gabriele Zanatta, Josko ha ricordato alcuni suoi principi sulla produzione del vino: “Per fare un’uva buona, le vigne devono essere concimate dai conigli, concimi naturali per produrre poca uva, ma che duri nel tempo e nel vino. Bisogna assecondare la natura e lasciare che faccia il suo corso”. E spiega “Nel 1982 seguivo il modello francese. Poi ho capito che la barrique è necessaria dove non c’è terroir: tostature e tannini del legno non sono necessari quando hai buone uve”.

A proposito di vitigni internazionali dice: “Un vitigno che si adatta a tutte le terre del mondo non può dare il massimo ovunque. Gli autoctoni della mia terra sono il tocai, la malvasia e la ribolla, quest’ultima ha le bucce più spesse e si adatta meglio alla macerazione. Mio padre sosteneva che la Ribolla era il nostro vitigno. Un giorno raccontai a Luigi Veronelli la mia intenzione di vinificare solo ribolla perché cresceva nelle nostre terre da 200 anni. Dopo una settimana mi chiamò e mi disse che facevo benissimo perché la ribolla in quelle terre era presente da oltre 1000 anni”.
E prosegue: “Nel 2012, tanti anni dopo la telefonata di Veronelli, ho estirpato tutti i vitigni che non erano ribolla: l’ultima annata 2012 di Bianco Breg uscirà sul mercato nel 2019”.

Dall’acciaio alla barrique, dalla barrique all’anfora. “Il vino non può respirare in recipienti d’acciaio sterilizzati, e il mosto senza ossigeno non può fermentare e vivere. A un certo punto del mio percorso, ho sentito la necessità di tornare indietro sia in campagna che in cantina: sono andato in Georgia, nella culla della civiltà del vino e ho acquistato la mia prima anfora da 230 litri. L’anfora è stato il primo recipiente per il vino della storia. L’uva però deve essere buona. L’anfora per il vino è come l’amplificatore per la musica: se la musica è buona, l’acustica migliora, in caso contrario, amplia i difetti. Assistere ad una fermentazione spontanea in anfora è stata un’emozione indescrivibile. Poi ho eliminato analisi chimiche, chiarifiche e filtrazioni”.
“Non si può produrre vino senza zolfo. Ho cercato per anni di confutare la tesi Emile Peynaud, celebre enologo di Bordeaux, sull’impossibilità di produrre vino senza zolfo, ma poi ho dovuto ammettere che aveva ragione. Già gli antichi Romani utilizzavano lo zolfo nella produzione del vino e questo significa che già da duemila anni è una sostanza presente nella viticoltura. Non è importante solo l’enologia, bisogna dare dovuta considerazione anche alla storia”.
E se il vino non è limpido? “Come una persona non si può giudicare dal colore della pelle, così non si giudica un vino dal suo colore, il vino buono è il vino sincero. Se vado al ristorante e non hanno il mio vino in carta, lo porto io da casa perché mi voglio bene”. E se qualcuno lo definisce esagerato, Josko risponde con la domanda: “Hai mai visto Enzo Ferrari guidare una Porsche?”.

“Non faccio biodinamica per ottenere un certificato, lo faccio per me perché, ripeto, mi voglio bene, per la mia terra e per chi verrà dopo di me, per il consumatore. In natura non può esistere perfezione, specialmente quando interviene l’uomo. Abbiamo fatto dei danni in passato: in natura non ci sono specie che non servono. L’opera positiva umana oggi potrebbe essere impiantare alberi da frutto tra le vigne, nidi artificiali per le cinciallegre, per i calabroni, pozzanghere artificiali perché la zanzara nutre l’uccellino. È ora di cercare la semplicità, meno interventi dell’uomo, eliminare concimazioni chimiche. 25 anni fa ho smesso usare concimi chimici perché sono per la terra come la droga per l’uomo: ti dà forza improvvisa e poi ti uccide. Fa morire tutti i microorganismi della terra che la rendono viva”.

Alla fine della chiacchierata, dopo lunghi applausi, sono stati in tanti ad avvicinarsi a Gravner per complimentarsi, stringergli la mano e fare una foto con lui, ma quello che resta nell’aria, dopo aver parlato di grandi idee esposte con disarmante semplicità, è una sorta di solennità. Quasi un’ombra di anima. Quell’anima che il vignaiolo filosofo impiega per produrre. Quell’anima che ritroviamo nei vini di Josko Gravner.