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Il personaggio

La nuova svolta di Pino Cuttaia: “Mi concentro su un solo ingrediente”

28 Luglio 2011
cuttaia cuttaia

Lo avevano pure battezzato “il figlio dei mulini a vento”. Per quella sua “passionaccia” di farsi in casa il “pane caravaggesco” con “la croce in coppa”, in dieci versioni diverse, con tante farine e molti ripieni.

Un marchio affibbiatogli da osservatori disarmatamente superficiali. Con sguardo ipometrope, che non arriva mai più in là del loro naso. Perché dietro quel suo gioco infantile, di manipolare la farina, impastata con l’acqua, già s’intravedeva la vis di un grande creatore. E grande chef lo è diventato presto. Premi e riconoscimenti infatti gli piovono da ogni cielo. E con mal celata modestia si “vergogna” di questo suo grande talento. «Il premio che mi assegneranno a Castelbuono è tra i più graditi, arriva dai miei conterranei, e vuol dire che qualche cosa di buono per la nostra Sicilia lo abbiamo fatto e ce lo riconoscono. E questi riconoscimenti li considero tra i più genuini, i più sinceri e con un valore aggiunto maggiore perché disinteressato».
Oggi Pino Cuttaia, patron del ristorante “La Madia”, “patisce”, anche le due stelle Michelin, che da qualche anno graffiano la sua insegna nella centrale via Re Capriata di Licata, parlano da sole e dicono tutto. E lo hanno aiutato a dismettere i panni inzaccherati del “mugnaio” e a chiudere l’angosciosa dipendenza della sua “cucina del pane”. Così la farina del suo sacco è oggi tutta macinata, al “mulino della sua memoria”. Sacchi in cui ha sigillato immagini , ricordi e “madeleine” proustiane. Come la cucina degli avanzi che elaborava sapientemente la mamma, come lo “sforzo antico di conservare i prodotti; come l’”arancinoal forno” col suo profumo di festa; “la triglia fritta”, che, oggi, rielaborata, l’ha fatta diventare un must e la propone con la tisana,ottenuta con l’essiccatura della lisca. E ancora, tra “i ricordi”, la seppiadella tradizione, quella classica, ripiena al sugo di carne di maiale, altra ricetta oggi rielaborata e icona del menu, più che una ricetta un vero esempio di delirio di onnipotenza, con la seppia sottoposta a processi chimici e fisici da cui ottiene carbone di mare, col nero essiccato, gnocchi, uova che diventano pop corn, fettuccine e… fermiamoci qui perché poi ci sarebbe anche una salsa al finocchio e le impressioni, e le facce, di chi ha gustato questo piatto e che sono anch’esse ancor più lunghe e complesse da raccontare.
 «Un piatto perfetto!» ci corre d’obbligo definirlo. «Non sta qui la perfezione – ribatte Pino Cuttaia – la perfezione in cucina è un concetto mentale che si adotta quando il piatto piace e trova il favore del pubblico. Ad esempio perfetto per me è il piatto più semplice dei miei menu. Il “Pomodoro e mozzarella”, una ricetta progettata e realizzata in un solo giorno. Ma che fatica! Come se ci avessi lavorato una stagione intera. Due ingredienti lavorati con poche aggiunte, ma non snaturati. E presentati nella più semplice delle forme. Una delle ricette che più mi ha gratificato».

Allora la ricetta della seppia con triglia la si può definire specchio della cucina moderna?
«Non faccio cucina “temporale”. Salvo quando i ricordi mi portano indietro negl’anni, in posti lontani nel tempo. Solo in questo senso la ricetta può avere i caratteri di un’epoca ma non la considero cronografica. Ma solo in funzione dell’ingrediente che sto elaborando. La mia “Spigola arrosto in crosta di fior di sale”, ad esempio parla del presente e del futuro insieme, c’è il fuoco e il mare, la sapiente semplicità degli antichi pescatori e le cotture tecnologiche del terzo millennio. Una volta ero famoso per fare il pane farcito ed aromatizzato. Adesso invece mi piace “stare” sull’ingrediente e sulla centralità del piatto».

Tutti i piatti raccontano una storia, qual è la storia più bella raccontata da un tuo piatto?
«Quella del “Merluzzo affumicato alla pigna e condito alla pizzaiola”. C’è il racconto dei miei primi giochi col fuoco, dove appoggiavo le pigne per farle aprire e recuperare i pinoli, mentre mia mamma in cucina, accanto a me, rispolverava con astuzia travestita di premura la carne avanzata del giorno prima e ne faceva una saporita pizzaiola».

La tua sembra una cucina senza tempo e senza casa. Eppure nel suo Dna c’è molto della tua terra? Come giudichi la cucina siciliana di oggi?
«È cresciuta molto negli ultimi dieci anni. E crescerà ancora. Apparteniamo al mediterraneo un mare un’area, una miniera di sapori, tradizioni, prodotti e culture, inesauribile. Il cuoco siciliano, se vuol rendersi moderno, deve tornare all’antico, conservare questo patrimonio ed evitare di giocare al ribasso. Sulla qualità, sui costi, sui servizi e, soprattutto, sulla sua anima siciliana».
Lo congediamo con due sentimenti. La congratulazione per le sue due luccicanti stelle Michelin che gli brillano sul petto. E la consapevolezza del peso di quanto queste due stelle gravino sulle sue spalle. «Più un peso o più un orgoglio?» gli chiediamo. Coerente sino in fondo, e con chiara riduzione, Pino Cuttaia, saluta, semplifica e così risponde: «Solo un’orgogliosa pesantezza».

Stefano Gurrera