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Il prodotto

La tradizione millenaria del vino cotto

19 Ottobre 2018
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di Mimmo Vita

È quasi al termine il tempo di vendemmia. Sono in atto, forse, ancora le raccolte tardive (nel Veneto ad esempio si raccolgono i grappoli della Docg Friularo Bagnoli, Padova). 

In questo quadro, c’è una tradizione che fortunatamente sopravvive a livello locale anche se con difficoltà, ed è quella del mosto cotto. Una pratica molto antica. Ad esempio, presso gli antichi Romani venivano prodotti e variamente consumati diversi tipi di mosti cotti; fra quelli più frequentemente menzionati nelle fonti scritte il caroenum, il defrutum e la sapa. Come ricorda l’Enciclopedia Treccani, tutti e tre questi mosti venivano concentrati tramite ebollizione e si differenziavano a seconda della percentuale di acqua residua. Plauto, nel 191 a.C., cita il vino cotto per un lauto banchetto e più tardi Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua Storia Naturale, annovera il vin cotto fra le bevande dolci più ricercate. Ne descrive cosi la preparazione: “Ingenii, non naturae opus est, musto usque ad tertiam partem mensurae decocto” (è frutto dell’ingegno, non della natura, poiché si tratta di mosto cotto fino ad un terzo del suo volume).

Tradizionalmente si era soliti produrlo ad ottobre, in tempo di vendemmia, pigiando uva ben matura e filtrandone successivamente il succo ottenuto. Il mosto cotto è quindi un prodotto tipico ottenuto da uve solitamente mature e per questo con zuccheri maggiori rispetto a quelle dell’ordinaria vinificazione (23-25% di zuccheri). Denominato anche vincotto o sapa, assieme al miele ed agli altri possibili succhi di frutta ridotti tramite cottura, era il tipico dolcificante dei nostri avi; lo zucchero di canna e quello di barbabietola erano ancora sconosciuti. La procedura per realizzarlo è mediamente uguale dappertutto: si pigia l'uva a dovere. Si prosegue con la “diraspatura”, separando il succo dalle bucce, dalla polpa e dei raspi. Filtrato, si versa il mosto in un pentolone abbastanza capiente (un tempo paioli di rame o pignatte di terracotta) in modo da riempirlo poco più della metà, perché durante la cottura il liquido si “gonfia”. Si fa bollire lentamente per ore (7-9), fino a ridurne il volume: se di un terzo prendeva il nome di defrutum, se della metà sapa. Il risultato è un denso liquido, dal sapore particolarmente dolce, colore bruno scuro, profumo gradevole ed intenso.


Recentemente si è tenuta la nuova edizione de “I Fumi Cotti”, manifestazione nata dalla volontà di Comune e Pro Loco di Ripe San Ginesio (MC) in collaborazione con la Unione Montana dei Monti Azzurri, di mantenere vivo nel suggestivo borgo dell’entroterra maceratese, ferito dal terremoto di due anni fa, l’antico procedimento della cottura del mosto e della preparazione del vino cotto. Il nome “Fumi cotti” deriva dalla profumata cortina fumogena prodotta dalla prolungata cottura del mosto nel suo grande recipiente. Nel centro storico di Ripe San Ginesio, dal mattino, i ragazzi in costume pigiano l’uva in grossi tini di legno, il mosto versato in grandi caldaie di rame dove si lascia bollire per ore. Quindi viene versato in botti di rovere dove riposerà per un anno; durante la festa perciò si gusta quello dell’anno prima assieme a tutte le specialità, specie dolci, che vedono il “Vino cotto” come ingrediente. La tradizione del mosto cotto però, come detto, attraversa tutta la penisola, specie al centro sud. Un esempio? Questo procedimento è alla base della produzione dell’Aceto balsamico sia di quello Igp di Modena che del Dop Tradizionale di Reggio Emilia, i quali richiedono entrambi il mosto cotto come base. Oppure la tradizione calabrese (‘U vinu cuattu o misticuattu).

La curiosità è che un tempo, e forse ancor oggi, veniva proposto quasi come un farmaco. Si usava per preparare ottimi decotti contro i malanni di stagione, assumendolo a piccole dosi, oppure allungato con acqua e miele per preparare decotti come facevano gli antichi romani, e persino si massaggiava sulle gambe dei bambini, per rinforzarle. Studi recenti hanno dimostrato che molte di queste pratiche hanno un valore terapeutico. Innanzitutto il vino cotto è ricchissimo di polifenoli, che combattono l’effetto dannoso dei radicali liberi; il suo elevato potere antiossidante è risultato correlato, oltre che alla presenza dei fenoli, anche agli zuccheri che si formano in seguito al processo di caramellizzazione. ‘U vinu cuattu, a conferma delle antiche tradizioni popolari calabresi, è quindi un alimento prezioso, ricco di quei composti antiossidanti che possono combattere l’invecchiamento cellulare e prevenire le patologie cardiovascolari e tumorali. In passato, come abbiamo ricordato, l'uso dello zucchero era molto limitato. Per questo molti i dolci della tradizione vengono realizzati ancor oggi, specie al sud, con dolcificanti naturali quali il miele, lo sciroppo di fichi ed il mosto cotto. Visto che tra non molto si festeggerà San Martino (11 Novembre), la festa che per il mondo contadino indicava la chiusura dell’annata agricola, dove quindi venivano regolate tutte le partite economiche, mi piace proporvi un dolcetto tradizionale della costa ionica della provincia di Reggio Calabria, chiamato proprio “Sammartina”. A dire il vero si trattava di un preparato particolarmente costoso per gli ingredienti che lo componevano, così la saggezza popolare ha allungato il suo tempo fino di consumo fino al Natale; anche perché grazie alla presenza del vino cotto, esso si conservava per tutto il lungo periodo festivo.