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L'azienda

Feudi di San Gregorio punta ai monovarietali stile Borgogna

19 Marzo 2014
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Feudi di San Gregorio bypassa il concetto di cru e punta sull’areale.

L’azienda icona dell’enologia campana e del sud Italia di Sorbo Serpico è decisa a seguire oramai una sola rotta, il territorio. Non nell’accezione suggestiva da marketing. Bensì di un piano ben preciso che rivoluzionerà in gran parte la produzione. L’obiettivo: quello di mettere in bottiglia le diverse espressioni di uno stesso varietale che può dare la stessa micro area. Sullo stile Borgogna, per intenderci. “Quattro Falanghina, quattro Fiano, quattro Greco di Tufo, tanti quanti ne esprime la terra”, così dipinge il portafoglio del  prossimo futuro l’Amministratore delegato Pierpaolo Sirch, che nella vita parallela fa squadra con Marco Simonit, co-fondatore della Scuola Preparatori d’Uva. Lo abbiamo incontrato ieri a Palermo in occasione di una degustazione organizzata da Beverfood Sicilia. 

Virata importante e impegnativa, soprattutto dal punto di vista del mercato, per la realtà che firma 4 milioni di bottiglie e che vanta oltre 700 ettari di vigneto. “Una scommessa  che certo, all’inizio, sarà difficile comunicare al consumatore e soprattutto all’estero – ammette Sirch – ma per noi è la strada più giusta per promuovere le potenzialità e l’unicità del terroir Irpino, e far comprendere la sua ricchezza”. Si partirà proprio da questo angolo di Campania. In cantina già la sperimentazione su questi “monovarietali di terroir” è andata avanti, ma ancora non è stata decisa la data del debutto. L’azienda dovrà preparare il terreno per far comprendere la nuova forma mentis, che in realtà, appunto, in alcune zone oltralpe, è la regola. Per Feudi di San Gregorio si tratta di un passo quasi obbligato nel cambio di prospettiva già in atto da qualche anno e che negli ultimi tempi si è concretizzato in significative acquisizioni oltre i confini della regione. L’ultima, recentissima, conclusa poche settimane fa, quella di Cefalicchio, azienda biodinamica a Canosa di Puglia, 39 ettari nel nord barese, terra del Nero di Troia.

“Arriveremo a non assemblare più uve da più aree. Abbiamo codificato tutti i vigneti e stiamo procedendo, siamo in fase di studio, alla vinificazione separata – spiega ancora l’Ad -. Vogliamo far capire davvero il luogo d'origine, far sentire nel vino non solo il varietale ma ancora di più l’interazione uomo, ambiente, vitigno. E’ questa è la chiave di lettura più efficace. I francesi la adottano da sempre, merito della conoscenza del territorio che hanno. Ma adesso anche noi siamo più coscienti da questo punto di vista. In Irpina e nel Benventano, dove l’agricoltura è rimasta quella di una volta, l'habitat è rimasto preservato, grazie all'opera del viticoltore possiamo esprimere le diverse sfaccettature e potenzialità dell'areale”. 

Manuela Laiacona