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L'iniziativa

Salvo Foti a Wine Moment: “La svolta per l’Etna? Promuovere la vite ad alberello”

02 Giugno 2020
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“C’è modo e modo di fare viticoltura”. A portarci con lui sull’Etna, durante il nostro Wine Moment, è Salvo Foti, definito dal New York Times come il più importante agonomo ed enologo siciliano e oggi a capo de I Vigneri.

Insieme alla nostra Francesca Landolina si è cercato di ripercorrere le tappe che hanno portato l’Etna ad essere quella che è oggi, intesa come territorio enologico. “Se si vuole fare una viticultura lavorando in modo moderno e meccanizzato si avrà un determinato risultato – spiega Foti – ma c’è anche un tipo di viticultura che tiene alla custodia e alla tutela del territorio. Quest’ultima è un tipo di viticoltura che necessita esperienza. Alcuni vini, ad esempio, certi anni noi non li abbiamo fatti uscire perché non ritenevamo ci fossero i livelli qualitativi che solitamente garantiamo. E l’esperienza non la si apprende con corsi e lezioni, ma sul campo”.  Foti è anche autore del libro “Etna. I vini del vulcano”, giunto alla sua terza edizione, e in cui parla dei cambiamenti sostanziali avvenuti sul territorio dell’Etna. “Una volta c’erano delle stagioni “normali” – spiega – adesso invece sono aumentati i venti, ci sono dei cambiamenti repentini ed è aumentata molto l’umidità. Quando si faceva in questo periodo la potatura verde si iniziava di mattina molto presto, e le foglie che cadevano già intorno alle 11 diventavano secche, adesso invece restano umide. Non ci sono quei caldi asciutti. Oggi abbiamo la capacità di capire come sarà il tempo durante la settimana, quindi possiamo dedurre se tenere l’uva un giorno in più o no”.

E da esperto del territorio, Foti illustra come andrebbe tutelato. “Se uno va ad assaggiare i vini dell’Etna alla cieca, anche se di una stessa contrada, li troverà diversissimi tra loro perché tutto ciò dipende dalle differenze legate al metodo di produzione. Bisogna avere un denominatore comune. Spesso vedo vini rossi dell’Etna che invece sono dei rosati un po’ marcati. Si parla di territorio, conservazione, rispetto, ma nel momento in cui uno pianta ad alberello si capisce la differenza. Bisognerebbe promuovere questo metodo per questo motivo, per tutelare davvero il nostro territorio. Se fai l’alberello tra l’altro, e lo fai con la plastica, stai solo danneggiando il suolo – aggiunge – quando potresti usare la rafia, la zammara o la ginestra. Tutti parlano di Etna e di difesa dell’Etna, ma c’è gente che usa pali in ferro, che non è sicuramente come usare un palo in castagno. Oggi abbiamo la possibilità di scegliere quello che vogliamo fare e chi vogliamo essere, è un fatto culturale e il vino dev’essere cultura. Partendo da questo valore, la cultura ha bisogno di cura, bellezza e moltissimo tempo. La mia fortuna, e quella dei miei figli, è di vivere un territorio che gode di una grande cultura”.

E sull’allargamento della Doc? “Dovremmo partire intanto da concetti precisi, con uno studio che non si può fare in due giorni – ha spiegato – Noi ci troviamo ad oggi con la Doc più antica in Sicilia, che ha 50 anni, quindi un punto fermo per il consumatore. Se andiamo a vedere la storia siciliana delle Doc vedremo che nel giro degli ultimi 30 anni è cambiato tutto, e non si capisce come. Da un lato direi che si dovrebbe allargare perché ci sono delle zone che meriterebbero di rientrarci, dall’altro rischiamo di allargarla troppo”. E di questo periodo, la mancanza dei turisti si sente eccome… “Ci mancano molto i turisti, i visitatori. Per molte aziende sull’Etna è anche modo di fare business, per noi invece era semplicemente accogliere la persona, avere un contatto con loro, passeggiare insieme nel vigneto. Riuscivamo a comunicare umanamente quello che facciamo, e questo ci manca”.

Giorgia Tabbita