Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'intervento

“L’Etna che vorrei”

20 Aprile 2012

Concludiamo il ciclo di interventi sull’Etna del vino che abbiamo chiesto all’enologo e agronomo Salvo Foti in occasione di Sicilia en Primeur.

di Salvo Foti

L’Etna che vorrei è nel mio ricordo.

Vivo. A volte nostalgico e struggente. Attraversa tutti i sensi. Quanto più intensa è l’emozione, tanto più rimane indelebile. E’ il tempo passato che ritorna, spesso nei momenti di tristezza. A volte complice è un vino: il suo profumo, il suo gusto, così unico, mi emoziona e riporta immediatamente indietro nel tempo, all’infanzia tra i palmenti e le cantine etnee. Amavo le giornate di ottobre. Arrivava in quel mese il vero autunno ristoratore, dopo la lunga estate, che a volte continuava anche oltre la metà di settembre. Con la nuova stagione, le prime piogge portavano profumi, colori, nuova vita. L’aria, carica di energia, frizzante, fresca mi piaceva sentirla sul corpo.

Da bambini basta poco per farci felici. Da adulti, spesso, non apprezziamo appieno quello che abbiamo. Vogliamo di più e subito. Bisogna sbrigarsi, afferrare il più possibile. L’egoismo aumenta, ci rende più cattivi. La pazienza inizia a diradarsi, come la vista. Bombardati, pressati ad avere. Facciamo più cose, ma meno bene. Ci manca il tempo. Siamo quotidianamente in lotta con esso. Il tempo il nostro grande limite, l’ansia su di noi, la sua conseguenza. Siamo meno attenti al particolare, alla forma, alla completezza, all’ascolto degli altri. Sembra che non siamo più capaci di volere, addirittura, sopportare la perfezione, il piacere della piccola cosa, dell’attimo.

Ammirare un fascio luminoso di luce solare che bacia, illuminandoli, i fiori rosa della saponaria, il grigio-argento dei licheni sulla roccia nera, il giallo vivo dei fiori di ginestra. Tutto questo accade in un attimo e può rimanere in noi impresso per sempre.  Ci può bastare un momento per farci felici?

La natura ha l’arte della diversità. La capacità della perfezione. Tutto ha un senso per chi ha la capacità di cogliere tutto questo. Felice fu Alexis de Tocqueville, che colpito dalla visione, non dell’Etna, ma solo della sua ombra, parla di “spettacolo com’è dato vederne una volta sola nella vita”.    

Il tempo a disposizione, allora immenso per un bambino, mi portava spesso a camminare volentieri in mezzo ai vigneti. Guardavo con piacere le vigne, centenarie, che si confondevano con il bosco, con i frutteti, con i noccioleti e con essi condividevano le nere terrazze e il vitale terreno. Le viti non erano mai regolari. Diverse una dall’altra, attorcigliati al loro palo di castagno, apparivano orgogliosi della loro difformità.
Il rincorrersi delle nuvole del cielo, che a ottobre giocano con i timidi raggi di sole, mettevano ancor più in risalto un arcobaleno di colori, profumi, emozioni.

Ottobre sull’Etna era ed è, un mese speciale. Il mese del mistero, del miracolo che ogni anno, da millenni, si ripete: la vendemmia. Sull’Etna la vendemmia arriva tardi, spesso quando già nel resto della Sicilia è finita. Con l’arrivo dell’autunno, mi sembrava già di sentire nell’aria l’odore acre e pungente che da lì a qualche giorno si sarebbe sprigionato ovunque, intenso, durante le fermentazione dei mosti, dai palmenti. Un profumo che come un vento di maestrale riempiva le strade, inebriava, eccitava tutti noi.

In quei giorni le strade che portavano ai fondi vitati si riempivano, all’alba e alla sera, di gente chiassosa: i vendemmiatori, che a gruppi raggiungevano la vigna. Noi bambini guardavamo le “chiurme”, sfilare per la strada. Incuriositi da tutte quelle persone a noi sconosciute, festose, gioiose. In vendemmia la giornata iniziava presto anche per noi “carusi”, che volevamo aiutare, partecipare a quella festa.  Riempivamo di uva le nostre piccole ceste finchè, in poco tempo, non eravamo stanchi. Era forte la curiosità di andare in giro, non voler mai stare fermo: ora nella vigna a mangiare un grappolo d’uva e poi di corsa nel Palmento.

Il Palmento mi affascinava. Rimanevo tanto tempo, forse ore, a guardare mio nonno e i suoi aiutanti salire per le scale e, attraverso la finestra che dava all’esterno, scaricare l’uva nella “pista”: larga e bassa vasca in pietra lavica, dove si trovavano i “pistaturi” che a piedi nudi o dopo aver calzato pesanti scarponi, pestavano quei grandi grappoli neri e turgidi. Ricordo il suono dei loro piccoli passi ritmatici, le mani dietro la schiena, mi sembravano dei danzatori. Sono ancora presenti nella memoria le loro canzoni che li aiutavano a tenere il ritmo. Di tanto in tanto, il gruppo si fermava nel momento in cui mio nonno urlava: e pali! Grido che ogni volta mi trovava impreparato facendomi sobbalzare dallo spavento.  Immediatamente ognuno prendeva la pala e spingeva l’uva pressata nella parte centrale della “pista”, riformando un nuovo mucchio di grappoli. A quel punto succedeva la cosa che più mi divertiva: la pressatura con lo “sceccu”, l’asino. Per pressare ulteriormente l’uva, su di essa si metteva una specie di ruota  costruita con rami di salice intrecciati, appunto lo “sceccu”, su cui salivano sopra i “pistaturi” contemporaneamente. Essi con le braccia poste ognuno sulle spalle dell’altro, iniziavano a salire sullo “sceccu” ponendo un solo piede sullo stesso, mentre l’altro rimaneva ben fermo a terra. Ad un certo punto tutti insieme saltavano contemporaneamente sopra e flettendo ed estendendo le ginocchia, pressavano ulteriormente ciò che restava dei grappoli. Il mosto rosso scolava a flotti, prima più abbondanti poi sempre più radi.

Poi arrivava la pressatura delle vinacce con il torchio detto “conzu”. Macchina  difficile il “conzu”, dove notavo, più che in altri momenti, l’apprensione di mio nonno. Guardavo la grossa trave in legno di quercia muoversi in uno stato di spavento e curiosità, rimanendo impietrito davanti a quell’arnese infernale, fino a quando non sentivo mio nonno urlare contro di me: preoccupato mi potessi far male mi mandava via. Spaventato e mortifcato correvo fuori. Non trascorreva molto tempo e ritornavo nel Palmento, cercando, nel concitamento generale, il volto di mio nonno: il suo sorriso e il sudore grodante sulla fronte mi facevano capire che voleva gli portassi “u bummulu”, la brocca con l’acqua.

Giorni frenetici, intensi. La vendemmia era un intreccio di colori, gente, canti, suoni, oggi ormai persi. E nel caos dei palmenti, come per magia ogni anno si ripeteva il mistero: il frutto della vite, l’uva, da dolce, succosa, appena pigiata, iniziava a ribollire ed emanare profumo intenso e calore, sino a trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. Per me bambino il mistero era ancora più inconcepibile, perchè se era concesso di mangiare l’uva, poi diventava assolutamente proibito bere il risultato di quella trasformazione misteriosa: il vino. La curiosità e il piacere mi rendevano impavido e nella confusione generale di quei giorni bevevo ripetutamente un poco di quel liquido, ribollente, tiepido e frizzante che cambiava velocemente il suo modo di essere. Il sapore all’inizio dolce e fresco, poi diventava acido, aspro, sapido. Il mal di pancia che regolarmente mi procuravo e che cercavo di tenere nascosto ai miei nonni, non fu mai un deterrente sufficiente a far smettere i miei continui assaggi, a rinunciare a quel sottile piacere.

Ottobre, ogni anno, portava con se anche uno strano pathos fatto di ansia, trepidazione, eccitazione. Era il preludio alla vendemmia che ci metteva tutti in uno stato di preoccupazione mista a gioia. Si era consapevoli che bastava poco perché un anno di lavoro andasse a male. Le nubi grigie, cariche di umidità, passavano sopra i nostri nasi rivolti all’insù: nell’aria si avvertiva intenso il profumo della pioggia. Gli sguardi sembravano indifferenti, ma vi era la preoccupazione di vedere fermare le nubi attirate dalla Muntagna (l’Etna). La pioggia così desiderata in altri periodi ora faceva paura. Si faceva finta di niente. “a Muntagna dici ca nu gniovi na  paura (la montagna dice che non piove, non aver paura)”, diceva mio nonno.

La sera, tutti attorno a conca, si ascoltava u Nannu. Le sue storie, volutamente paurose per noi bambini, ci affascinavano.  In una di quelle sere, intorno al focolare, aspettando la vendemmia, con una espressione di chi sta confidando un segreto, una grande verità, u Nannu sentenziò: “Carusi, riurdativillo sempri  u vinu si fa ca racina, sulu ca racina! Rimasi stupito da questa banalità. Ovvio no, il vino si fa con l’uva!”.
 
Sono passate tante vendemmie da allora e questa banale verità mi ritorna spesso in mente. Nell’era delle tecniche più sofisticate, della conoscenza globale, delle biotecnologie capaci, sembra, di tutto, mi tornano in mente le parole mio bisnonno: “riurdativillo sempri  u vinu si fa ca racina!”

Si, il vino si deve fare con l’uva, con amore, onestà, rispetto dell’ambiente e dell’uomo: questi sono i migliori ingredienti di un vino, quello vero, da sempre impresso nella mia memoria.

E’ questa l’Etna che ho avuto e questa l’Etna che vorrei per i miei figli.