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L'intervento

Perché il passaggio in barrique nobilitò la Barbera

11 Gennaio 2021

di Daniele Cernilli, DoctorWine

Quando nel 1984 uscì la prima annata di Bricco dell’Uccellone ’82, la prima Barbera fatta maturare in barrique, mi ricordo che telefonai a Giacomo Bologna molto preoccupato.

Conoscevo da diversi anni Giacomo perché mio padre, commerciante di mobili a Roma, riceveva ogni anno una cassa dei suoi vini in regalo da un suo fornitore piemontese, il signor Niciforo. Ci mandava Barbera d’Asti La Monella, appena vivace, e un Grignolino d’Asti che trovavo buonissimo. Vini semplici, immediati, facili da bere. Il produttore era Braida di Rocchetta Tanaro, e il proprietario era il vulcanico e geniale Giacomo Bologna, del quale proprio da pochi giorni è caduto il trentennale della scomparsa. Giacomo, lo seppi dopo, era amico fraterno di Gino Veronelli e di Giorgio Grai, e l’idea di produrre una Barbera “diversa”, più complessa, facendola maturare nelle piccole botti francesi gli arrivò proprio da Veronelli, che in quegli anni ne era un convinto supporter. “Giacomo – gli dissi al telefono – quel vino sarà anche buonissimo, però è così diverso dall’idea che ho della Barbera che mi spiazza. Sei sicuro di quello che fai?”. La risposta fu molto decisa “Senti, io voglio fare della Barbera qualcosa di diverso da un vino popolare e rustico. Voglio produrre un grande vino che possa essere al livello dei migliori del mondo. L’ho persino fatto assaggiare ad André Tschelitscheff, il famoso enologo, e mi ha detto che lo trovava fantastico. Questa è la strada per nobilitarla, per farne un vino che possa stare al passo con i Barolo, i Brunello, i Sassicaia”. Il rapporto fra Barbera e barrique nacque così.

Vi racconto tutto questo perché ultimamente ho dovuto, io che avevo tanti dubbi all’epoca, difendere in rete quella categoria di vini, Barbera d’Asti e d’Alba, e soprattutto Nizza, che sono prodotti con l’uso dei legni piccoli. Giacomo Bologna fu un profeta lucidissimo, e quel modo di concepire la Barbera ebbe poi un grande successo in Italia e nel mondo, sdoganando nei fatti la tipologia dall’immagine di vino soltanto nazionalpopolare che aveva sempre avuto. Lo seguirono Michele Chiarlo con La Court, Vietti col Vigna Vecchia Scarrone, Coppo con il Pomorosso, Elio Altare con Larigi, Marchesi Alfieri con l’Alfiera, Olim Bauda con il Bauda, Franco Martinetti con il Montruc, Cascina Chicco con il Bric Loira, Gianfranco Alessandria con il Vittoria. Lo stesso Giacomo poi fece il Bricco della Bigotta a Ai Suma. Barbera d’Asti, d’Alba, Nizza, con differenze anche significative per stile e origine, ma tutte legate a un nuovo modo di realizzarle coinvolgendo, oltretutto, cantine e produttori del cui valore non credo che molti possano discutere, considerando il ruolo e l’importanza che hanno avuto per il comparto vitivinicolo piemontese. Hanno tradito l’essenza della Barbera? O hanno invece reso giustizia a un vino e a un vitigno prima relegato a ruolo di simpatico e ruvido sparring partner dei Barolo e dei Barbaresco? A spiegarmelo quando ero perplesso ci pensò tanti anni fa Giacomo Bologna. Ora forse è necessario ripeterlo e ricordare come andarono le cose.

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