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L'intervista

Lo storia dello street food palermitano: “Ecco come è diventato quello che conosciamo oggi”

07 Dicembre 2016
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(Paolo Inglese – ph Vincenzo Ganci)

di Rosa Russo

In tutte le capitali europee è ormai di gran moda. Da Londra a Parigi, da Beirut fino Bangkok, passando da Bruxelles o da Amsterdam, lo street food ha ormai fama internazionale e offre prodotti di grandissimo valore che non conoscono tregua. 

E sono soprattutto i giovani ad apprezzarlo. Ma nel sud dell’Europa – a Palermo in particolare – lo street food non è mai stato un trend momentaneo ed ha una origine che affonda le sue profonde radici nel tempo. Un tempo in grado di raccontare la città tutto porto, la sua memoria, il suo legame con la storia e con le tante dominazioni che ha accolto. Del resto, scriveva Gesualdo Bufalino che le Sicilie sono tante e non finiremo mai di contarle. 

Come nasce, allora, la tradizione dello street food palermitano? “E’ una storia – spiega Paolo Inglese, professore ordinario dell’università di Palermo alla facoltà di Scienze Agrarie e Forestali – che possiamo far risalire a migliaia di anni fa. Una storia che ha dei momenti chiave con alcuni prodotti che nascono dalle comunità nord africane, arrivate a Palermo, ma anche da comunità arabe e in parte ebree. Le panelle, ad esempio, sono di chiara derivazione araba, invece il panino con la milza, potrebbe risalire alle comunità ebraiche. Lo stesso cannolo risalirebbe, secondo alcuni, alla presenza araba in Sicilia, in particolar modo alle componenti dell’harem di Caltanissetta. Secondo altri studiosi, potrebbe invece risalire alle suore che abitavano nei conventi e si dedicavano a queste produzioni. Di sicuro ci sono produzioni che hanno delle storie molto antiche e altre più moderne. Con il tempo queste produzioni si sono stratificate: suore, venditori ambulanti, mercanti arabi o ebrei inventano lo street food in momento in cui, non esistevano i ristoranti come li conosciamo oggi e si mangiava e si viveva materialmente per strada”.  

Quali sono le caratteristiche dello street food?

“Generalmente è di due tipi. Anzitutto può essere cotto o crudo. Può essere un finger food o può aver bisogno delle posate. Pensiamo ad esempio al polipo. La caratteristica più importante è l’immediata commestibilità del prodotto. La cosa interessante è che di alcuni prodotti si può vedere come è cucinato. Pensiamo alle panelle, alle crocchè, alla milza che sono fritte spesso davanti ai nostri occhi. Le arancine in genere sono già cotte perché è un cibo che, ormai, è entrato dentro il bar. Dello sfincione non si vede il processo di cottura ma, ancora oggi, è venduto per strada.                

Che cosa rappresenta il cibo da strada per i siciliani?

“Per mille ragioni storiche la Sicilia è il regno del cibo da strada, soprattutto per l’estrema variabilità e diversità dello street food. Mentre alcune regioni si identificano in un solo prodotto, pensiamo ad esempio alla piadina in Emilia Romagna, in Sicilia c’è invece una grande pluralità del cibo da strada, che rispecchia la molteplicità di culture specifiche, diffuse nei vari territori dell’isola. Oggi  questo cibo, in realtà, è diventato un cibo immediato che si offre al chiuso. Penso alle rosticcerie palermitane che si possono considerare una evoluzione del cibo da strada e sono abbastanza uniche nel contesto nazionale perché offrono, in larga misura, proprio il cibo da strada che lì è diventato cibo da bottega”.        

Il prossimo anno l’Unesco si pronuncerà per inserire la pizza napoletana come patrimonio culturale immateriale della umanità. Secondo lei è auspicabile ipotizzare una candidatura dello street food palermitano?   

“La diffusione che la pizza italiana ha avuto negli Stati Uniti, ha determinato questa diffusione in tutto il mondo. Il nostro sfincione ha, invece, una diffusione estremamente locale. Il fatto che lo street food palermitano possa un domani ambire a dei riconoscimenti ampi, è possibile. Non so se è probabile. Di certo la sua forza è ancora nella pluralità, almeno secondo me. Anche nel singolo prodotto c’è sempre un tentativo di pluralità: il classico panino con le panelle può essere mangiato insieme alle crocchè. Difficile dire quale prodotto dello street food palermitano o del mondo medio-orientale, potrebbe essere candidato un domani come patrimonio culturale immateriale della umanità, proprio perché in sé il sistema dello street food palermitano, siciliano, esiste appunto nella sua pluralità. Al momento dovremmo cercare di valorizzarlo per quello che già è. Perché è prima di tutto un simbolo di come comunicare il cibo”.           

Storia, mare e monumenti insieme al turismo rappresentano un ideale paradigma intorno al quale costruire il presente e il futuro prossimo di Palermo. Nonostante le grandi potenzialità, che i palermitani conoscono bene, perché Palermo sembra essere sempre il fanalino di coda dell’Europa?  

“Questo mi piacerebbe saperlo. Credo però che a Palermo manchi l’organizzazione, la sinergia. C’è un profondo scollamento tra parti sociali, politiche e commerciali. Penso che su alcuni prodotti o su alcuni argomenti vincenti (e tra questi, indubbiamente, c’è la gastronomia e in particolar modo lo street food palermitano) dovremmo fare tutti un lavoro che parte dal basso, per costruire una omogeneità tra tutti quelli che fanno lo street food. E’ importante offrire, nella diversità dei prodotti palermitani, una omogeneità di metodo. Invece questo non accade. Se lo street food diventasse una vera rete che interagisse veramente, attraverso magari una forma comune di appartenenza o attraverso un logo comune, una sorta di filo di Arianna che unisce tutti coloro che fanno cose simili, allora ci sarebbe davvero un grande e importante cambiamento. Credo che questo manchi a Palermo. In Olanda tutti quelli che vendono patatine fritte, sono un simbolo di Amsterdam e hanno tutti una riconoscibilità comune che da noi non esiste. Qui ognuno rincorre la propria specifica visibilità, dimenticando che la qualità è anche una questione di rete, di organizzazione, di pluralità di soggetti che la compongono.  Essere il più bravo da solo non serve a niente. Essere bravi insieme a molti altri, serve a tutti”.