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L'intervista

Io, Capri, il Quisisana e Gualtiero Marchesi: “Nei piatti metto sempre la mia vera identità”

04 Gennaio 2018
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(Stefano Mazzone)

di Giorgio Vaiana

Un 2018 pieno di tante novità, con Capri nel cuore, ma con un occhio sempre proiettato alla cucina italiana ed internazionale. 

Lo chef Stefano Mazzone, responsabile della ristorazione del Quisisana di Capri (che comprende i ristorante Rendez-Vous, La Colombaia, Il Quisi, Un drink al Quisisana) parla del 2017 appena trascorso, racconta i suoi nuovi piatti, ragiona sulle sue ambizioni e i suoi nuovi progetti. Un curioso per natura, esplora, sperimenta, osserva e se il caso critica. Ma lo fa solo per migliorare se stesso e il luogo dove lavora, ormai da 11 anni. Un 2017 che ha segnato per il Quisisana l'ennesimo record di presenze “ed è il terzo anno consecutivo che facciamo numeri così importanti e sempre meglio dell'anno precedente”. Nato e cresciuto a Treviso, da genitori siciliani, ha fatto il percorso inverso rispetto a mamma e papà, emigrando al Sud, a Taormina dove ha lavorato per due anni tra il Timeo e il Sant'Andrea: “Un'esperienza fantastica che ricordo ancora con piacere e che mi ha fatto diventare quello che sono oggi”, dice Stefano. Poi la chiamata del Quisisana: “Mi hanno chiamato, invitato a visitare la struttura – racconta – Io ho rifiutato subito. Stavo bene a Taormina, ma ho pensato che sarebbe stato carino dirglielo di persona”. E così il viaggio a Capri. Al Quisisana, però, una sopresa: “Il direttore mi ha fatto trovare il contratto da firmare con la classica offerta che non potevo rifiutare – dice Stefano – E anche il mio direttore di Taormina mi disse che solo un pazzo poteva rinunciare a questa proposta di lavoro”.

Undici anni fa, dunque, l'inizio della carriera da executive chef della ristorazione del resort di Capri. Stefano porta con sè la sua mini-brigata. “Abbiamo passato un anno ad osservare – dice – Lì c'era una macchina ben rodata e tutto funzionava alla perfezione. Era impensabile proporre immediatamente dei cambiamenti”. Ma poi Stefano iniziò a inserire nel menu i suoi piatti. “Ma non ho stravolto il menu – dice lo chef – Ho cercato di far emergere la vera essenza del Quisisana, che ha una storia da raccontare. Una storia fatta di tantissimi eventi importanti che lo hanno trasformato in una vera eccellenza del territorio nazionale e non solo”. Ma, come dice Stefano, “va bene la tradizione, ma bisogna sempre rimanere aggiornati, conoscere le tecniche moderne, insomma stare al passo con i tempi”. Storia, dunque, ma futuro. “Intanto una storia stiamo cercando di ricostruirla, con una serie di ricerche che se confermate potrebbero far diventare il Quisisana un luogo dal punto di vista storico enogastronomico, molto importante per la cultura italiana”. Pare, infatti, che proprio qui sia stata inventata e servita la prima caprese, tra i piatti italiani più conosciuti nel mondo: “Non era certo come quella che mangiamo adesso – dice lo chef – era fatta con insalata a foglie verdi, mozzarella fiordilatte e pomodori, un chiaro omaggio alla bandiera italiana. Ci sarebbero dei documenti che ne parlano intorno agli anni 1922, 1923, 1924, comunque prima della Seconda Guerra Mondiale. Mentre la data ufficiale della caprese viene collocata intorno agli anni '50. Abbiamo finanziato delle ricerche e vedremo cosa ne uscirà fuori”.

Stefano è in ferie in questo momento. E' tornato nella sua Sicilia, ma pensa sempre al nuovo menu del Quisisana: “Cerco sempre di rispettare i tre comandamenti della nostra ristorazione – dice – Proponiamo un menu internazionale, perché il nostro hotel ha quei canoni che non passano mai di moda; poi un menu della tradizione campana, quindi con attenzione massima al territorio; ed uno caprese, ma attenzione, che intende una cucina fortemente mediterranea, dove si esaltano il pesce, le verdure, gli agrumi, i capperi e l'origano, la mia spezia preferita e che uso quasi ovunque”. E si punta alla valorizzazione dei prodotti un po' bistrattati: “Come quando presentai un piatto con lo sgombro – racconta Stefano – Un pesce che quasi ti regalavano in pescheria perché non lo voleva nessuno. Io venni preso per pazzo quando lo preparai con dei pomodori e una maionese leggera all'origano, un ricordo della mia infanzia, di quando alla fiera di Messina con i miei genitori mangiavo un classico panino da street food con sgombro arrostito, cipolla e maionese. Ecco un piatto con un ingrediente povero che diventa gourmet. Qui ci sta tutta la mia filosofia e questo piatto rappresenta la mia storia gastronomica”. Nel nuovo menu ci saranno tante verdure (fave, piselli, cipolla, melanzane, peperoni, zucchine, tanto pesce) e tanta pasta, ingrediente simbolo d questo territorio “ma cercherò di stupire i clienti proponendo piatti della tradizione con ingredienti inusuali”.

Come la parmigiana preparata con cipollotto nocerino: “Un piatto che tutti conoscono, come la parmigiana, preparato invece con queste stupende cipolle di Nocera Inferiore, delle vere chicche di gastronomia”. Una cucina semplice, di marchesiana memoria. E non potrebbe essere altrimenti per uno che di Gualtiero Marchesi è stato un allievo: “La sua morte mi ha reso molto triste – dice – Gualtiero Marchesi era un vero maestro, nel senso pieno e vero del termine. Ora la sua morte ci costringe ad un passaggio storico fondamentale ed importante. Ho iniziato a riflettere anche sulla mia identità culinaria e su quello che voglio essere. La strada è tracciata, certo, ma credo che mi avvicinerà ancora di più alla cucina semplice, marchesiana appunto, che ha dato un grande esempio a tutti”. Lui ha seguito il corso con Gualtiero all'Albereta nei tempi d'oro. E con Stefano c'erano chef del calibro di Carlo Cracco ed Andrea Berton, “mica gente così”, scherza. Gente stellata. A proposito, lui la stella non ce l'ha: “Non è un'ossessione -dice – Ho 42 anni e l'intelligenza per capire certe cose. Noi lavoriamo sempre con impegno, rigore e serietà. Siamo qui. La critica ci apprezza. Quando ci daranno la stella, se mai ce la daranno, ne saremo orgogliosi e felici. Altrimenti continueremo a lavorare come abbiamo sempre fatto”.

Lui dice le cose che pensa, non ha peli sulla lingua. Come quando criticò un piatto di un noto tristellato italiano: “La contaminazione spagnola è molto presente nella nostra cucina e questo è evidente – dice – Ed è un vero peccato visto il patrimonio gastronomico che potremmo e dovremmo offrire. Questa contaminazione la notai in un piatto di uno chef tristellato di cui non voglio fare il nome e glielo dissi. Il suo staff mi pregò di non farlo mai più visto che per giorni e giorni cercò di fare quel piatto togliendo gli ingredienti che potevano ricordare la Spagna. Credo che ognuno di noi debba esprimere la sua cucina, ma che sia sempre legata alla identità italiana. Oggi, invece, vedo una scarsa identità, quasi a non voler esprimere noi stessi, la nostra italianità. Gli chef di oggi assomigliano tutti a tutto. Io, invece, voglio sempre fare emergere una mia identità”. Identità è una parola che Stefano ha sempre tenuto in grande considerazione: “Ho imparato a essere una persona unica perché ho un fratello gemello (Alessandro) e quindi era fondamentale trovare un metodo per differenziarsi da lui”.