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L'intervista

Carlo Fiori: io, allevatore di formaggi vi spiego i più buoni, la crisi e perché il futuro è roseo

19 Aprile 2021
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Il patron dell’azienda Luigi Guffanti di Arona a ruota libera: dall’importanza del latte crudo all’e-commerce. “E attenti ai facili affinatori. I formaggi vanno fatti crescere bene”.

di Alessandra Meldolesi

È l’erede della più grande dinastia a sangue bianco del formaggio italiano, bisnipote del fondatore Luigi Guffanti, pioniere della gastromania. Uno che portava il miglior Gorgonzola fino in America, dalle stive dei piroscafi fino alle dispense degli emigrati, come un gesto di conforto propiziato dall’abilità nella stagionatura. Ma è anche un sensibile affinatore e un uomo d’affari, che ha fatto della qualità una lama a doppia punta da affondare dentro nuovi mercati. Oggi Carlo Fiori è amministratore dell’azienda di famiglia, con i due figli che, dice, hanno deciso liberamente di rientrare dopo aver compiuto altre scelte. “Piano piano si sono fatti colonizzare dallo stesso virus che mi ha colpito 50 anni fa, quando è mancato l’ultimo discendente in linea diretta e sono stato chiamato ad accompagnare la ditta verso una dolce morte – racconta – A quei tempi era un bruscolino, perché dopo la seconda guerra mondiale si era molto ridimensionata, ma il morale restava altissimo grazie alla coerenza nel metodo di lavoro e nel rapporto con allevatori e casari. Perché io ho semplicemente portato avanti un modus operandi che già c’era: la collaborazione con gente che gestiva in proprio l’alimentazione del bestiame e la trasformazione del latte, talvolta persino nella stalla”.

“Nel 1970 già seguivo l’altra attività di famiglia nel ramo dei materiali ferrosi e ricoprivo un incarico di ricerca alla Bocconi. In casa avevo sempre consumato formaggi ordinari, così mi sono subito scontrato con un macigno che resta ingombrante: il fatto che questo alimento non sia riconosciuto per la sua caratura specifica. Invece ha un nome proprio, che sia Parmigiano Reggiano o Provola dei Nebrodi, e questo corrisponde a prezzi variabili, che possono alzarsi per ragioni diverse dalla speculazione. Oggi come allora, è l’ente superiore che definisce il prezzo del latte, da cui discende quello del prodotto finito per cui occorre tot materia prima. Io che venivo da Milano, però, controllavo i listini della borsa merci e qualcosa non mi tornava, perché quello che era quotato a 600, noi lo vendevamo a 618, 630, perfino 642. Allora è successo che ho chiamato i due unici dipendenti, gente che mi aveva visto nascere e che avrei dovuto accompagnare alla pensione. Erano stupidi o disonesti? E sai cosa mi ha risposto il più evoluto? Lei non sa cos’è il formaggio. Non è quella cosa che si trova nel negozio più economico del circondario, ma il prodotto della coagulazione del latte. E questo a sua volta non è solo un liquido bianco, dipende dai luoghi e dal tipo di alimentazione degli animali. A quel punto mi si è aperto un orizzonte: come addentrarsi nel giardino delle meraviglie”.

“Ho capito che il prezzo dipendeva dalla resa del latte nel formaggio, con la sua caratura. Certi prezzi bassi erano in realtà carissimi, perché la qualità non corrispondeva al denaro; altri sembravano elevati, ma non coprivano tutti i pregi della filiera. L’azienda a quei tempi aveva rapporti con 350 produttori in Italia, tutt’intorno le botteghe di vicinato iniziavano a declinare e si preparava il terreno per la grande distribuzione. Nessuno capiva ciò che vendevamo, erano tutti convinti di avere l’occorrente, anche se non proveniva da animali nutriti su pascolo stabile, senza fertilizzanti. Così ho pensato di vendere direttamente e sono andato a vedere come funzionava in Francia, la mecca della casearia. I maîtres fromagers mi hanno accolto calorosamente e mi hanno insegnato tantissimo. Ho imparato il lavoro di valorizzare, conoscendo i luoghi e le persone, e ho scoperto l’esistenza di botteghe dedicate, dove si recavano pure le massaie. Perché il formaggio non era considerato un riempitivo o un cibo da poveri, ma aveva una sua nobiltà a differenza dell’Italia. Ed è paradossale, visto che noi abbiamo una biodiversità che la Francia può solo sognarsi, anche se ci mancano le grandi pianure per l’allevamento estensivo”.

“Il primo negozio l’ho aperto nel 1972 ad Arona e ho visto che funzionava, perché è una località di villeggiatura sul Lago Maggiore, sulla strada per Milano e il centro Europa, dove un tempo passava l’Orient Express, insomma è sempre stato uno snodo importante. Io ero fedele alla mia mission, la stessa del bisnonno: valorizzare il formaggio attraverso l’affinatura in un contesto di grandi traffici. Sono incappato nell’interesse di alcuni importatori stranieri, che avevano la villa sul lago, cosicché ho raggiunto il mercato inglese e quello tedesco. Dopo lo scandalo del metanolo, iniziava il riscatto dei territori e io guardavo al vino come un modello per la rinascita del settore”. Oggi Guffanti impiega 20 dipendenti e commercializza 200 tipi di formaggio, per un volume di 20 quintali al giorno. Prodotti selezionati stando vicino ai produttori, affinché non cerchino alte rese in stalla, alimentino gli animali con fieno e integrazioni proprie in inverno; a stalle aperte, in transumanza o in alpeggio con la bella stagione. Si tratta quasi sempre di prodotti a latte crudo, perfino più facili da lavorare, perché fanno tutto il latte, il caglio e il sale. Un lavoro che va poi interpretato ed esaltato, ma sarebbe già buono così. “In questo senso mi definisco un allevatore di formaggi, perché il mio intento è esaltarne aromi, gusti e strutture, anche in vista della conservazione. Li prendiamo e li facciamo crescere. Oggi sono diventati tutti affinatori, ma continuo a leggere sciocchezze. Non basta prendere un formaggio banale e addizionarlo a piacere per fare qualcosa buono”.

“Cerchiamo il Parmigiano di caselli che vadano oltre il disciplinare e talvolta lo alleviamo fino a 10 anni, in modo che continui a esprimere la sua nobiltà diversamente. Anche il Gorgonzola lo maturiamo più che possiamo, in modo che sia cremoso non perché gonfio di siero, ma grazie alla proteolisi. A volte creiamo anche qualcosa di nuovo. Per esempio con il Covid gli allevatori di bufale erano disperati, non sapevano più dove mettere il latte e mi hanno chiesto che fare. Io mi sono rivolto al professor Rubino e abbiamo messo a punto un prodotto straordinario, che abbiamo chiamato Cheesella, composto di mozzarella di bufala dentro un involucro di pasta filata di vacca, tipo manteca. In questo modo si conserva, rimane cremosa e freschissima, anche se ovviamente si evolve”. “Certo la gravissima crisi dell’Horeca ci coinvolge, ma il formaggiaio se si ingegna può aprire altri canali con la signora Maria. Noi per esempio abbiamo creato un sito di e-commerce, potenziato la vendita diretta e cementato nuove partnership, compensando parzialmente il calo, che si trascinava dall’avvento del protezionismo internazionale. Resta il fatto che ogni animale va munto due volte al giorno, quindi bisogna trovare soluzioni che salvaguardino le mandrie, visto che la grande distribuzione subisce ancora la soglia psicologica del prezzo”.

“In generale resto ottimista: vedo un forte impegno verso la valorizzazione e l’aspettativa del prodotto virtuoso. Lo spazio del formaggio è destinato ad allargarsi e cresce la domanda di coerenza con il rispetto per l’ambiente. Gli Stati Uniti stanno allargando la loro produzione, l’Inghilterra la sta valorizzando tantissimo, la Germania produce latte di grandissima qualità, ma tutto uguale. Le manca la nostra biodiversità. Vedo anche qualche nube, per esempio il Nutri-score non dovrebbe considerare la salubrità degli ingredienti in generale, ma scendere nel dettaglio di come sono prodotti. E in generale il mercato tende da anni a favorire i super freschi, mentre crescono le DOP. La ristorazione ha messo in cantina i carrelli per un problema di cultura sul ruolo del formaggio, che può far risparmiare tempo alla cucina; ma la pizza gourmet con i suoi topping di grande caratura, rispettati e non bruciati, rappresenta una novità positiva”. “A casa mia ci sono molti formaggi di tipi diversi: paste dure di montagna, paste filate di lunga stagionatura, caprini freschissimi e non, pecorini semifreschi e un romano stagionato due anni che mi piace spizzicare con mia moglie insieme a un vino rosso della zona, sfatando i cliché. Con questi piccoli assaggi ci prepariamo al pasto volentieri. Oppure un grande erborinato alla fine, con un liquoroso, un rhum oppure un whisky. Per la conservazione occorre conoscere il proprio frigo: se è secco serve una scatola di plastica, se è umido legno o cartone, cambiando spesso gli incarti per fare respirare. Imperativo, poi, svolgere la degustazione a temperatura ambiente”.