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L'intervista

Daniela Scrobogna, lady sommelier: “Formazione? Qui qualcuno gioca al ribasso”

22 Ottobre 2019
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Lunga intervista con una delle docenti più conosciute della Fondazione Italiana sommelier. Dai suoi vini preferiti ai paragoni con la Francia, passando per i dazi e i nuovi mercati


(Daniela Scrobogna)

di Marco Sciarrini

Incontriamo ai margini di un evento della Fondazione Italiana Sommelier, Daniela Scrobogna, una delle docenti più conosciute Daniela Scrobogna e ne approfittiamo per scambiare quattro chiacchiere.

Come si è avvicinata al mondo del vino?
“Mi trovavo spesso in situazioni conviviali dove molte persone ed in particolare stranieri, conoscevano cosi bene il vino da farmi sentire in imbarazzo. E' stata quindi la curiosità ad avvicinarmi a questo mondo”.

E come è arrivata alla Fondazione?
“Noi della Fondazione non siamo altro che parte di quella che era l’Associazione Italiana Sommelier Roma che faceva da sempre faceva determinate cose, come i corsi, Bibenda e molto altro. Ma come accade a volte tra marito e moglie, ci siamo separati e abbiamo preso due strade diverse”.

Secondo il suo punto di vista, il vino italiano dove sta andando? Anche da un punto di vista commerciale in un momento nel quale si parla tanto di dazi..
“Il vino italiano sta andando certamente verso la qualità, noi però ci stiamo focalizzando su un problema che a mio avviso è marginale. I dazi americani che possono coinvolgere formaggi come il Parmigiano Reggiano o i liquori, non devono farci perdere di vista altre destinazioni. Il vino italiano avrebbe uno sbocco enorme in Cina e nei paesi orientali, paesi ancora parizalmente inesplorati dal punto di vista commerciale e alla portata dei produttori italiani. Non capisco perché non ci sia un piano d’attacco commerciale. E' chiaro che non può andare un piccolo produttore da solo, ma ci deve essere una pianificazione ragionata e mirata. Li c’è veramente tanto mercato che riuscirebbe a non far pesare gli ostacoli dei dazi americani”.

Ma anche in Cina ci sono dei dazi pesanti sul vino…
“Sì, è vero. Ma allora cosa facciamo? Ci fermiamo? La qualità dei nostri è conclamata e tutto il mondo la riconosce. Forse dovrebbe essere il pubblico italiano, il primo consumatore di questi vini, a credere nel vino italiano e consumarlo di più. Purtroppo, e questo noi lo sappiamo, c’è una piccolissima fetta di persone acculturata che ha il piacere di avere un buon vino a tavola, che non significa dispendioso, un buon vino da abbinare correttamente piuttosto che tanti milioni di italiani consumatori di bevande alternative o vini pastorizzati.

Quali sono i suoi tre vini del cuore?
“Posso veramente spaziare per tutta l'Italia. Con tutta la passione e l’amore che ho per l’Etna e quindi per il Nerello Mascalese in primis, non vorrei far torto a nessuno dei miei grandi amici, ma esco leggermente fuori dai confini dell’Etna e indico Faro Palari di Salvatore Geraci. Per me è veramente un vino per tutte le stagioni e di un’eleganza straordinaria. Andando al centro non posso non indicare un vino come il Flaccianello della Pieve di Fontodi, un Sangiovese in purezza in Toscana, e arrivando al nord mi sembra obbligatorio puntare su un Barolo e li potrei dire tanti nomi, da Cavallotto a Germano senza andare su nomi molto altisonanti. Ma devo dire che Monfortino di Conterno è imbattibile”.

Allora ci dica i suoi tre luoghi enologici del cuore…
“L’Etna in primis, ogni volta che vado un pezzetto di cuore lo lascio lì. Poi certamente il Trentino, tutta la zona della Weinstrasse in Alto Adige e poi luoghi dove si coltivano vini eroici che possono essere gli scorci della Costiera Amalfitana dove si tocca con mano cosa vuol dire vino e recupero del territorio”.

Come giudica la formazione in generale? Ci dica se c’è da migliorare e cosa…
“Mi sto accorgendo che c’è una giungla. Si gioca al ribasso, una cosa incredibile. Se il corso costa meno è quello più papabile. Se i vini fanno più schifo degli altri, quello è il miglior corso. Qui non si pensa alla qualità di chi termina questi corsi. Se questi ragazzi non bevono bene, non degustano vini eccellenti, non hanno i migliori docenti e non hanno dei corsi preparati appositamente per creare il personale qualificato, è veramente una perdita di tempo. E' come rubargli i soldi. Trovo che in questo momento ci sia una sorta di cannibalismo nei confronti dei corsi di sommelier e in ogni caso degli appassionati del vino”.

Si conosce tantissimo la sua passione per i vini francesi. Qual è il gap che dobbiamo colmare con i cugini?
“(Sorride, ndr) Sono un paio di secoli di differenza. Ed è il tempo che naturalmente ci da testimonianza di quello che è il passaggio della crescita di alcuni territori, quindi al netto di questo, dobbiamo credere di più ai nostri vini. Non si deve avere fretta di metterli in commercio, puntare in particolare sull’eleganza, sulla raffinatezza. Quando assaggi un Pinot Nero della Borgogna rimani estasiato, ma non rimani estasiato perché ha sentori di menta, di balsamico, di frutta, di erbaceo. E' l'insieme dei fattori che ti colpisce. Tu sai che stai bevendo qualcosa di unico, di irripetibile, che trasmette le sensazioni legate al territorio. Ci sono delle zone in Italia che riescono a fare questo ed è su queste che dobbiamo puntare. Quindi senza andare a cercare lo scoop con un vino massiccio, prepotente che ora non ha più senso, bisogna andare verso la finezza e l’eleganza.