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L'intervista

La famiglia Boeri e la Taggiasca, un rapporto secolare: “Così valorizziamo il territorio”

02 Marzo 2022
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di Christian Guzzardi

Vera e propria istituzione del comparto oleario ligure, l’azienda della famiglia Boeri si trova a Badalucco in provincia di Imperia.

Qui da oltre centovent’anni, nella Valle Argentina, entroterra sanremese, vengono coltivate in armonia col territorio olive della varietà Taggiasca; una storia di successo che da ben cinque generazioni vede i Boeri, noti anche con il soprannome “Roi”, impegnati nella produzione di extravergine di qualità. A raccontarcene la storia, gli snodi che ne hanno scandito la crescita e gli orizzonti futuri è Paolo Boeri, figlio del patron Franco che negli anni ’80 ha creato il brand Roi, oggi noto in tutto il mondo, e rivoluzionato il modello di business, passando dalla vendita all’ingrosso a quella al dettaglio. Un percorso professionale iniziato a soli 18 anni, l’esperienza in frantoio a fianco del papà e del nonno, poi gli studi lontano da casa e il ritorno in azienda per portare avanti una storia secolare, introducendo una nuova visione e rincorrendo importanti traguardi.

Produttori di extravergine di qualità e ambasciatori della Liguria nel mondo, un percorso avviato oltre cento anni fa. Cosa rende speciale la storia di Olio Roi?
“Se dovessi scegliere un aspetto, direi che ciò che ha inciso in maniera determinante è stato l’impegno, mai interrotto, della nostra famiglia. Abbiamo recentemente ritrovato negli archivi comunali di Genova un documento che attesta l’acquisto del primo frantoio nel 1875. Da cinque generazioni coltiviamo e ci prendiamo cura delle terre di Badalucco, lavorando in direzione di una crescita continua. L’assetto attuale si deve a mio padre, Franco Boeri, che quarant’anni fa, insieme a un socio tedesco, decise di valicare i confini regionali e di partire per la Germania con l’obiettivo di far conoscere un prodotto interamente artigianale e, fino ad allora, molto poco diffuso all’estero. Oggi il nostro olio viene venduto in quarantacinque paesi: dal Nord Europa agli Stati Uniti e fino ai paesi asiatici, nuova frontiera del mercato”.

Quali e quante tipologie di extravergine commercializzate in Italia e nel mondo?
“Ne produciamo diverse, ognuna delle quali è destinata a un settore merceologico e a un pubblico differente. Realizziamo, per esempio, dei prodotti appositamente per il settore horeca, sia blend sia monovarietali. Non solo olio ma anche tanti altri prodotti legati alla Taggiasca, alcuni recentissimi, come per esempio la birra e il gin”.

Cosa rappresenta per voi la Taggiasca e cosa significa fare “qualità taggiasca”?
“Vuol dire, innanzitutto, investire sul territorio. Ci troviamo in un’area che ha moltissimo da offrire: bellezze paesaggistiche, una tradizione gastronomica molto particolare, la compresenza, a pochi chilometri di distanza, di spiagge e montagne. Lavorare per la “qualità taggiasca” vuol dire valorizzare tutto questo. E, allo stesso tempo, significa credere in un’oliva difficile da coltivare, che non consente nessun tipo di meccanizzazione per via delle condizioni in cui cresce. È per questo che vogliamo raccontare la Taggiasca in tutto il mondo, per la sua storia unica. Non a caso abbiamo scelto di lavorare molto con il turismo esperienziale, veicolando la conoscenza dei prodotti e dei territori. Nessuno altrimenti capirebbe il motivo per cui il nostro olio d’oliva costa il doppio rispetto a quello della Gdo”.

Territori di grande bellezza, ma difficili da coltivare. Come è strutturata in tal senso la vostra azienda? Come e quando organizzate la raccolta?
“La nostra è la più grande azienda biologica della Liguria. Il nostro uliveto conta quindicimila alberi, tutti secolari e della varietà taggiasca. La raccolta, che effettuiamo a mano, prende il via la prima settimana di ottobre. Iniziamo dal mare, dove la maturazione avviene in tempi più veloci, e man mano procediamo salendo in altitudine. Non usiamo come metro di giudizio il calendario, nel senso stretto del termine. Si tratta inoltre di un’oliva naturalmente dolce che va assecondata nella sua natura, senza anticipare troppo. Il rischio altrimenti è l’olio risulti sbilanciato”.

Dal vostro osservatorio, qual è lo scenario del consumo di olio extravergine d’oliva in Liguria?
“Bisogna fare una distinzione tra l’uso nella ristorazione e il consumo casalingo. Chi vive in questo territorio, solitamente consuma olio prettamente ligure di produzione propria o familiare. Questo non vale purtroppo per il mondo della ristorazione che, ancora troppo spesso, vede l’olio come un costo. Bisognerebbe lavorare, infatti, sul concetto che un olio buono migliora i piatti”.

Attraverso quali strumenti è possibile raggiungere questo risultato? Qual è il ruolo che può giocare la comunicazione?
“Credo che la comunicazione dell’olio debba essere un po’ “svecchiata”, messa alla portata di tutti. Spesso si utilizza un modo molto tecnico per parlare di olio, cosa che non solo rende noiosa la narrazione sull’extravergine, ma che fa correre all’intero comparto il rischio di prendersi troppo sul serio. Basta pensare, invece, a ciò che accade nel mondo del vino. Il vino è divertimento, ha una tendenza diversa, e un prodotto che viene raccontato nel suo spirito di condivisione. A difesa del comparto oleario c’è da dire che, purtroppo, esiste una legislatura estremamente complicata che rende difficile comunicare la bontà dell’olio sull’etichetta. È tutto molto vincolato e ci sono, spesso, troppe informazioni da inserire. Informazioni che sono assolutamente sacrosante, che è necessario fornire, ma che si potrebbero rendere fruibili online attraverso un Qr code”.

Salute e gusto sono due delle leve a cui si è ricorso maggiormente nella comunicazione dell’olio. Quali tra queste può essere più efficace?
“In Italia la leva della salute ha effetti relativi. È un tema che affascina più il mercato estero. Si pensi agli Stati Uniti, dove però probabilmente rappresenta più una moda che un interesse reale. Il vero problema però, è che dell’olio mancano proprio le basi di conoscenza. Molta gente non sa proprio cos’è. Credo sia necessario partire da questo. Facciamo un lavoro immane sulle certificazioni e poi ci dimentichiamo che ancora non si conosce la differenza tra olio d’oliva e olio extravergine d’oliva. Sarebbe opportuno che l’educazione alimentare fosse un argomento affrontato nelle scuole scuola, perché è fondamentale per la salute di tutte le generazioni. È solo dopo questo passo che ci si può concentrare su: certificazioni, gusto e racconto del territorio”.

Occorre quindi un impegno istituzionale?
“Assolutamente sì. Serve che la politica comprenda che l’olio ha del potenziale, così come sta avvenendo in Spagna. Basta pensare che non esiste un marchio di olio italiano, mentre un marchio spagnolo esiste eccome”.

E con un marchio italiano cosa cambierebbe?
“Sarebbe innanzitutto un simbolo d’unione e di visione. Se vogliamo andare nel mondo a proporre il nostro olio occorre un appoggio istituzionale forte e molta più collaborazione. Ad oggi esiste ahimè molta competizione. Il marchio aiuterebbe a promuovere la biodiversità italiana senza scadere in competizioni estremiste. Come spesso purtroppo capita”.