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La degustazione

I 60 anni della Cantina Siciliana a Trapani: “Il nostro segreto? La sincerità in cucina”

23 Agosto 2018
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di Stefania Petrotta

Entrare nella “Cantina Siciliana” vuol dire fare un viaggio nel tempo. Inaugurata il 13 agosto del 1958 dai coniugi Scarcella alla presenza dell’allora segretario del PsdiI Giuseppe Saragat e sita in quello che un tempo fu il quartiere ebraico di Trapani, la Giudecca, ci andiamo proprio per onorare questo sessantesimo compleanno ed è qui, tra teste di moro imponenti e antichi pupi, carretti siciliani e intere pareti di vini, foto storiche e statue di cera del Settecento che incontriamo lui, Pino Maggiore, titolare e oste della Cantina. 

Conoscere Pino è una di quelle esperienze che ti fa volgere in buono la giornata e se poi hai la fortuna di assaggiare le sue frascatole in zuppa di aragosta, allora puoi ritenerti una persona davvero molto fortunata. Pino ti accoglie alla Cantina come se ti ospitasse a casa, mettendoti subito a tuo agio e mostrandoti la miriade di oggetti che colleziona. Arriva il momento di sedersi a tavola e, mentre sfilano sarde allinguate e cappuccetti fritti, polpi bolliti, bruschette alla bottarga, carpacci di pescespada con calamari e gamberi crudi e le già decantate frascatole, racconta di quando cominciò a lavorare in questo stesso locale, nel lontano ’66, come garzone e lavapiatti. Nato da una famiglia di proletari sotto la grande ala del Pci (e vi giuriamo che non è il titolo di un film della Wertmüller), bambino indomabile ma con tanta passione per questo lavoro, non mancava giorno che non si recasse a lavorare alla Cantina Siciliana e non mancava mattina che non si addormentasse in aula tra l’ilarità dei suoi compagni. La maestra sosteneva che in questo modo faceva distrarre la classe e per due anni consecutivi fu bocciato alle elementari con 6 in condotta.


(Pino Maggiore)

Intanto passano gli anni e il piccolo Pino viene promosso dagli Scarcella a cameriere: “Raccontavo un menù che non c’era, ma la mia non era mancanza di rispetto per i clienti, non era che li volessi prendere in giro, ma lo facevo perché mi dispiaceva la magra proposta che offrivamo. Allora inventavo una serie di piatti ma era quello che realmente avevamo in cucina che riuscivo a vendere, consigliando le persone come se gli stessi proponendo chicche per pochi”. E continua raccontando dei suoi tantissimi anni di gavetta in ogni ambito all’interno dell’osteria che gli hanno permesso, nel tempo, di ricoprire qualsiasi ruolo; della serie di avventure in giro per l’Italia che lo portano a sperimentare svariati lavori; e di quando finalmente, nel 1981, dopo una parentesi di gestione della Cantina Siciliana in forma di cooperativa con alcuni amici, la rileva diventandone proprietario unico e cuoco.

“All’inizio mi adeguavo alla richiesta del pubblico. Era il periodo in cui in qualsiasi parte d’Italia fossi la gente chiedeva carbonara, bolognese, tortellini, etc. e io li accontentavo. Finché ho deciso che non mi interessava, che volevo raccontare chi ero io con la mia cucina e quindi, passando prima attraverso l’Arcigola e poi da Slow Food, ho iniziato a proporre solo i piatti con cui ero cresciuto”. Sorride ripensando a quel periodo in cui chi voleva denigrarlo lo chiamava “il tavernaro” o “il comunista” senza sapere che erano due epiteti che lo rendevano orgoglioso. Nel suo cuore, infatti, ci sono state tante donne ma un unico amore: il Pci. E la clientela risponde bene, “cresce”. Piano piano e solo attraverso il passaparola si sono avvicendati professionisti, artisti, intenditori e tantissimi stranieri.

Resta in cucina fino al ’97 quando, scalpitante, lascia il locale in mano alle fidate sorelle Aissi e finalmente si concede di iniziare a girare per il mondo: “Io credo che gran parte del mio successo lo devo proprio a Hajer e Ibtisem che sono con me da 22 anni e senza le quali non avrei potuto lasciare il ristorante per viaggiare, conoscere il mondo e ampliare la mia mente. Con loro sono sempre stato sicuro perché è come se in cucina ci fossi io. A me piace giocare, credo che la vita sia un gioco e come tale vada vissuta. Anche il mio lavoro è un gioco, mi devo divertire. Se non mi divertissi è indubbio che farei altro. Anche il fatto che io abbia sempre lavorato in una cucina senza attrezzature, con soli sei fuochi di cui uno sempre acceso per tenere il cous cous col vapore, lo dimostra: che ci vuole ad essere bravi, a fare gli “chef”, quando hai macchine che fanno il lavoro per te”?

              

Oggi la Cantina Siciliana è una delle più belle realtà della città di Trapani e una delle poche che non abbia sentito particolarmente il calo del flusso turistico ad opera della cancellazione di buona parte dei voli aerei. Quando gli chiediamo quale sia il segreto del suo successo, del restare “sull’onda” per 60 anni, ci risponde con sincerità: “Io voglio far stare bene le persone: chi viene a casa mia è mio ospite. Ecco, credo che il segreto del mio successo sia la mia generosità ma anche le tante persone che mi hanno voluto bene. Quelle che non me ne hanno voluto, neanche le conosco quindi che me ne importa?”.
Progetti per il futuro ancora tanti ma uno su tutti: aprire un ristorantino con un piccolo museo annesso e lasciarlo gestire ad una cooperativa sociale. A questo proposito il 2 e il 3 ottobre prossimi ha in programma due cene in collaborazione con i ragazzi down che gestiscono il “Ristoro Primavera” a Meina (Novara).
E poi? “E poi, quando sarò grande, voglio viaggiare!”