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La degustazione

Dici speck, pensi birra. Sì, ma quale abbinare? I nostri consigli

20 Giugno 2021

di Simone Cantoni

Dici speck; pensi Alto Adige cioè Sud Tirolo; la mente corre automaticamente alla cultura (anche gastronomica) dell’intera Mitteleuropa.

Si materializza dopo pochi secondi l’immagine mentale di un tagliere ben caricato con fette, appetitosamente disposte, del gustoso salume; e subito dopo il quadretto virtuale si completa con una seconda sagoma: quella di un bicchiere di birra. Fin qui tutto liscio e regolare. L’equazione è articolata, ma fila. La questione si pone quando si entra nei dettagli della scena; quando, cioè, ci si domanda: birra, d’accordo; ma quale tipologia? Già, perché la questione non è secondaria, avendo a che fare con un prodotto alimentare dalle caratteristiche ben precise e peculiari: il buon bilanciamento tra grassi e proteine; la consistenza strutturale di media solidità; la densità sensoriale elevata, includente una spinta sapida non trascurabile, unita a tratti di piccantezza, e una tendenza olfattiva alla quale (oltre la materia carnea) contribuiscono sia alcune balsamicità della speziatura sia – soprattutto – la dominante affumicata del trattamento.

UN’ALCHIMIA DI FUMO E TEMPO
Riferiscono le fonti di una massima in uso tra i preparatori di speck: poco sale, poco fumo e tanta aria fresca. Un motto paraproverbiale nel quale si riassume l’essenza di questa specialità salumiera. La quale nasce da una coscia di suino: la quale però, una volta completamente disossata, viene – a differenza di quanto prevede la procedura per il confezionamento di un prosciutto crudo – mantenuta integra nelle componenti del grasso e della cotenna; quindi aperta, per essere aromatizzata e salata (appunto con moderazione); e infine sottoposta ad affumicatura (essa stessa dosata con gentilezza). Il resto lo fa la stagionatura: l’aria fresca del detto popolare. Attestato a partire dal Seicento con il termine attuale (che dal 1997 gode della sigla di tutela Igp, Indicazione Geografica Protetta), ma documentato già dal tredicesimo secolo con altri appellativi, lo speck (lardo in tedesco) nasce dalla necessità di conservare la carne: bene prezioso, specie in un regime di non diffuso benessere materiale. Scelto il pezzo, detto baffa, lo si lavora come detto; lo si avvia alla salmistratura (sempre a secco; con sale, pepe e una miscela di aromi variabile da marchio a marchio: ginepro, rosmarino, alloro, aglio, coriandolo…); e quindi lo si affumica a freddo (cioè non oltre i 20 gradi, al fuoco di legna di faggio), per tre settimane circa. La stagionatura dura invece più o meno cinque mesi e mezzo; un arco di tempo lungo il quale sulla superficie del salume si forma una muffa naturale che ne protegge la sostanza, mantenendone umidità e morbidezza. Alla fine non resta che assaggiare… Ed è quel che abbiamo fatto; testando un abbinamento con quattro birre diverse.

SPECK E BOCK
L’onore e l’onere di avviare le ostilità spetta alla Enné, una Tradition Bock (5,2 la gradazione) targata Doctor B, brewpub con sede a Livorno. Ambrata dai toni tostati (biscotto, caramello, nocciola) e dal lancio palatale abboccato, soffre un poco (ma neanche troppo), nel “corpo a corpo” muscolare, la fibra tenace dello speck; del quale invece incrocia armonicamente le sapidità esuberanti, grazie alle proprie pinguedini zuccherine d’inizio corsa gustativa. Corsa che, tuttavia, chiude con un lieve sussulto amaricante, andando in lieve frizione con la stessa, persistente, salagione del salume. Un equilibrio, insomma, da annotare per quel che è: dinamico.

SPECK E RAUCHBIER
Un secondo confronto assolutamente di rito; che pone, sotto i riflettori, la portabandiera di casa Schlenkerla (Bamberga. Alta Franconia, Baviera, Germania) ovvero la Märzen da 5,1 gradi: bruna, affumicata e dalle ampie schiume nocciola. La quale, come dire, trova la quadra rispetto al faccia a faccia precedente. Infatti – al netto di un perdurante (e comunque, di nuovo, relativo) deficit strutturale rispetto alla consistenza del salume – il finale della corsa gustativa, in questo caso, non piega su note amaricanti in effettiva evidenza: ce ne sono, sì (da tostature dei malti, più che da luppolo), ma non tale da produrre attriti con la sapidità del boccone. Da manuale, poi, l’allineamento delle direzioni olfattive piatto-bicchiere: presupposto per generare l’impressione di star sperimentando un medesimo argomento sensoriale (l’affumicato, appunto), prima in forma solida e poi in forma liquida.

SPECK E BELGIAN TRIPEL
Proseguono i giochi senza frontiere (citazione per chi ricorda il popolare programma televisivo): l’Alto Adige raccoglie l’approccio del Belgio, nelle forme della Dolly, Tripel firmata, ad Avigliama (Torino), dal marchio Filodilana. Pulsante nei suoi 9 gradi alcolici, nel suo colore dorato squillante, nei suoi profumi di frutta matura (banana, pera) e spezie (pepe bianco, noce moscata, elicriso), la sorsata sabauda intercetta e asseconda l’aromatizzazione del salume; mentre (se, da un lato, anche il suo corpo longilineo ansima un po’ nello spalla a spalla con il deltoide palestrato della materia carnea), l’alleanza tra la rotondità etilica della bevuta e il suo finale ben secco, ma privo di amaricature esuberanti, scongiura, in linea con il round precedente, bisticci di sorta con la sapidità del boccone. Potremmo sintetizzare così: come imbastire un buon dialogo con il tema affumicato, da una prospettiva ancora diversa…

SPECK E ITALIAN GRAPE ALE
E qui, dopo aver scorso il titoletto, il lettore potrebbe obiettare: Eh, si fa presto a dire Iga. Ebbene, avrebbe ragione: ché lo stile si rifrange in decine di declinazioni possibili. Andiamo dunque al punto: qui si parla della U&M, etichetta della linea CantinaTerina, segmento speciale della gamma ’A Magara, marchio calabrese di Nocera Terinese, Catanzaro; di base un Barleywine (9.2 la gradazione) elaborato con una ponderosa aggiunta, a fermentazione avviata, di acini di uva Magliocco (vitigno tra i più rappresentativi dell’ampelografia calabrese; in specie del quadrante cosentino); e con la successiva elevazione, per 8 mesi, in tonneaux provenienti da precedenti applicazioni a cicli di maturazione di vino Sangiovese. Ne deriva un calice dal colore ambrato e dall’aspetto omogeneamente velato, bordato di schiuma avorio voluminosa in mescita e veloce nell’assottigliarsi; i cui profumi intonano le sintonie di una rusticità brettata, di un fruttato a pasta disidratata (albicocca), di un miele agreste (di bosco), di un selvatico a bacche scure (mora, ribes nero, mirtillo), di un legnoso umido (corteccia) e più evoluto (tabacco). Complessa, la bocca (agile il corpo, guizzante la bollicina) media tra abboccature iniziali, calore alcolico e freschezze acido-tanniche; con queste ultime che (nel finale secco secco) rivelano un capriccio amaricante comunque tenuto a bada dall’appena citato slancio alcolico. L’incontro col boccone (immaginerete) è curioso; alla densità materiale della sorsata qualcosa manca: ma non certo a quella sensoriale complessiva. La sua morbidezza a inizio corsa gustativa liscia per il verso del pelo la sapidità del morso; e se, contro di essa, il recalcitrare tannico-amaricante della chiusura qualche sfregamento lo produce, a garantire comunque amalgama provvede, con generosità commovente, di nuovo l’energia levigante delle termicità alcoliche erogate dalla bevuta. Con i suoi pro e contro, quella che si dice un’esperienza: decisamente.

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