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La degustazione

Le braciole rifatte, il piatto “povero” della tradizione alla prova del Birrificio dell’Aspide

01 Agosto 2021

di Simone Cantoni

In Toscana, si sa (ma come del resto un po’ in tutt’Italia), la cucina di recupero è uno dei capitoli che fanno da pilastro alla tradizione gastronomica regionale.

E allora ecco che una ricetta compare, con nomi diversi (magari solo leggermente), tra i repertori di diverse province: “rovellina” lucchese, braciola all’aretina, braciola “rifatta” (con l’eventuale specifica “alla livornese”), braciola in salsa o semplicemente braciola. In soldoni, una preparazione molto semplice: che consiste, dopo aver fritto (in pastella d’uovo e pangrattato) un bel vassoio di fettine di manzo, nel reimpiegare quelle avanzate “ripassandole” al tegame in un fondo di pomodoro (tra pelati e passata). Questa la formula di base: sulla quale poi s’innestano numerose varianti. Nella ricottura, ad esempio, alcune fonti riportano l’uso di ingredienti quali aglio, capperi, salvia, basilico, peperoncino, acciughe o altri ancora, da soli oppure in combinazione; e prima dell’impiattamento, da più parti si attesta la consuetudine di spolverare le carni con origano o timo o altro “trito” vegetale.

LA RADIOGRAFIA DEL PIATTO
Nutriente e gustoso, il nostro secondo piatto – che non di rado troviamo catalogato tra le voci dell’arte culinaria “povera” – si caratterizza per una struttura materiale di discreta consistenza; per una densità gustolfattiva elevata, nel contesto della quale spiccano tratti energici di sapidità e acidulità (nonché, in funzione delle opzioni di lavorazione, possibili spinte piccanti); per la presenza di una frazione grassa non trascurabile, data come minimo dall’olio e dall’uovo usati in frittura; per una tendenza olfattiva nella quale l’intervento eventuale di elementi quali acciughe e capperi può rendere consigliabile l’adozione di tecniche di abbinamento con cui gestirne le odorosità, esposte al rischio di generare sensazioni insistenti al palato, nel caso di lunga persistenza post masticazione. Tutto ciò induce, nella ricerca della birra “arruolabile” come compagna di viaggio in tavola, a volgere l’attenzione verso prodotti dai requisiti di buona acidulità e carbonazione; magari anche di taglia etilica medio-alta; certamente a contenuto amaricante da molto moderato a quasi nullo; prodotti altrettanto certamente dotati di valori apprezzabili in fatto sia di corporeità sia di densità gustolfattiva. Alla luce di tali premesse, ecco gli accoppiamenti che abbiamo “messo sotto collaudo”, con tre diverse etichette del Birrificio dell’Aspide, marchio artigianale campano operante, da 2011, a Roccadaspide, in provincia di Salerno.

PRIMA RIPRESA: LA ITALIAN GRAPE ALE
L’assalto iniziale è affidato alla “Narciso”: una IGA dorata da 6 gradi, costruita su un mosto cerealicolo da Saison il quale, ricevuta l’integrazione (al 12%) di un corrispettivo vinicolo da uve Moscato Bianco, viene fermentato con lieviti da Bière Blanche belga. La sorsata, assai sciolta, si rivela ben in grado di eseguire tutta una serie di felici operazioni: tenere testa (pur ansimando un po’, con la sua corporatura medio-leggera), alla tenacia del boccone; fluidificarne (tra alcol, bollicina e affilatezza minerale) la frazione lipidica; ammansirne l’acidulità (in sovrapposizione attenuativa) mediante la propria, la quale peraltro non stride contro la sapidità del piatto; non creare a quest’ultimo disturbi portati da amaricature di sorta (praticamente assenti nel bicchiere); intercettare, della braciola, alcune possibili tendenze aromatiche (salvia, timo) con analoghi tasselli rivelati dalla bevuta nel suo arco olfattivo.

SECONDA RIPRESA: LA SAISON
Una Farmhouse, per la precisione; ché la “Belle Saison” (protagonista della seconda prova d’abbinamento) trae vita da un esperimento: applicare al mosto, in fermentazione, un lievito autoctono, isolato a partire dalla popolazione di microorganismi residente sulla buccia delle cotogne prodotte da un albero cresciuto nel giardino di casa dello stesso birraio, Vincenzo Serra. Risultato? Un calice dorato da 6 gradi e 2, il cui comportamento “sul ring” possiamo sintetizzare in questo modo. La sua corporeità, leggera, forse fatica un poco nell’urto materiale con il boccone; rispetto al quale, però, la densità sensoriale complessiva della birra risulta leggermente più elevata; inoltre il suo impianto gustativo – dolceacidulo, secco e privo di esuberanze amaricanti – collima positivamente, per le medesime ragioni annotate in ordine alla “Narciso”, con le esigenze espresse dal piatto; infine, le rusticità nasali della sorsata (note di cantina, affilatezze lattiche), presenti a fianco dei più morbidi temi fruttati e floreali, richiamano e assecondano in particolare il ruolo facoltativamente esercitato dal cappero, a sua volta portatore di sensazioni, appunto, lattiche e piacevolmente taglienti.

TERZA RIPRESA: LA BELGIAN GOLDEN STRONG ALE
La “carica” finale è nelle mani della “Nirvana”, una Belgian Golden Strong Ale muscolare nell’alcolicità (7.5 i gradi) e tornita, se non proprio densa, nella struttura palatale: essa stessa comunque scevra da amaricature effettivamente sensibili; e anzi dotata di una rotondità (dovuta a un avvio abboccato che spalleggia l’appena citata stazza etilica) tale, in virtù anche della propria fisiologica acidulità di centro-bocca, da migliorare ulteriormente gli esiti in quel gioco, di rispecchiamenti e compensazioni gustative, già visto all’opera con le birre precedenti. In più, la maggiore corporeità del sorso in questo caso sostiene disinvoltamente la consistenza materiale del boccone; mentre le direzioni olfattive del secondo (in specie quelle dovute all’impiego di spezie) trovano, se non una precisa affinità, certamente una piacevole consanguineità negli spunti pepati offerti, al naso, dal bicchiere.

Birrificio dell’Aspide
Via dei Casalini, 169, Roccadaspide (Salerno)
0828 1991392
info@birrificiodellaspide.it
birrificiodellaspide.it