Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 180 del 26/08/2010

L’INTERVISTA Lo spumante tiene duro

26 Agosto 2010
panont panont

L’INTERVISTA

Alberto Panont, direttore del Consorzio di Tutela Vini dell’Oltrepò Pavese: “È l’unico vino che in questo mercato sta incrementando le proprie vendite. Il segreto? Il buon lavoro di alcune zone tra cui la Franciacorta”

Lo spumante
tiene duro

Possiamo dire che siamo ufficialmente in pieno boom di bollicine, la conferma arriva da Carlo Alberto Panont direttore del Consorzio di Tutela Vini dell’Olptrepò Pavese e segretario generale dell’Ascovilo (associazione Consorzi vini Lombardi). Una delle fonti più accreditate in fatto di spumanti, tanto da vantare la paternità di quello rosa, del Cruasé, la prima denominazione di cui si fregia un rosé in metodo classico, nata proprio sotto il segno del consorzio.

Sdoganate finalmente dall’ambito della festa, le bollicine cominciano a rivaleggiare sulle tavole degli italiani con rossi e bianchi. Un nuovo fenomeno tutto italiano alla cui testa si pongono le quattro terre per tradizione vocate agli spumanti, Franciacorta, Trentino doc, Oltrepò Pavese e Alte Langa. Un piccolo mercato con attualmente 22 milioni di bottiglie prodotte, ma effervescente, e non potrebbe essere altrimenti, perché con un potenziale di 80 milioni di bottiglie.

Si può dire che in questo momento c’è la moda delle bollicine?
“Per me, che da vent’anni lavoro sullo spumante, parlare di moda è difficile. Ma stiamo vedendo che attualmente lo spumante è l’unico vino che in questo mercato sta incrementando le proprie vendite e mantenendo un valore di filiera. Dall’uva alla bottiglia, in grado di garantire una capacità di sussistenza della filiera vitivinicola”.

Il segreto di questo boom?
“In questi anni ci sono state zone come la Franciacorta che hanno contribuito a questo rilancio e all’aumento della qualità generale delle bollicine italiane. Che è diventato alto. Se venticinque anni fa si per spumanti si intendevano quelli dolci, assolutamente indifferenziati, oggi con la parola spumati si identificano situazioni globali importanti. C’è il Prosecco, che ha superato i 50 milioni di bottiglie a denominazione, o la Franciacorta appunto che ha cambiato il modo di pensare il metodo classico in Italia”.

La gente si sta abituando alle bollicine di qualità?
“Finalmente si inizia a bere seriamente lo spumante italiano. Ora il secondo passo è quello di portare il consumatore alla scelta di quale spumante, delle tipologie e dei millesimi, come si fa con i rossi. Viene percepito come un prodotto di grande valore. Si parla di edonismo della scelta quando si va al wine bar. E poi finalmente viene bevuto nei momenti di vita quotidiana, si ama anche a tavola. Noto sempre più, soprattutto in estate, accanto a portate di pesce la spumantiera. Però tutto questo è una medaglia che ha due facce”.

In che senso?
“E’ vero che da una da una parte bere spumante, oggi, sta diventando una scelta qualitativa al pari di bere un vino grande rosso o bianco. Però dall’altro c’è ancora lavoro da fare, non si può chiamare tutto spumante, è fatto da tante facce, bisogna adesso investire sulle differenziazioni, che devono essere chiare al consumatore. Charmant e metodo classico”.

Non si ha chiara ancora la differenza?
“Lo charmant rimane una buona produzione. Certo non può essere paragonato al metodo classico. Se prendiamo l’esempio del Prosecco, ha una grande dignità e un valore nazionale, diventato sinonimo di italianità del mondo. Ha aperto la strada alla moda delle bollicine, facendo da apripista, adesso però spetta a chi fa metodo classico la possibilità di raccontare le altre bollicine italiane. Il problema è di immagine prima di tutto”.

Cioè?
“Prosecco è un nome facile, un brand che ha facilitato la capacità di riconoscibilità. Oggi negli Usa con Prosecco si identifica tutto lo spumante italiano, non è un bene però per l’identificazione della grande tradizione spumantistica italiana. Siamo all’inizio di un percorso, il mercato del metodo classico è piccolo che sta crescendo, ma sta diventando consapevole, con grandi capacità di differenziazione”.

Però altre regione stanno prendendo la strada della spumantizzazione.
“Sì. Sta emergendo una produzione spumantistica in zone diverse da quelle storiche, con la riscoperta degli autoctoni. Nelle Marche per esempio con il verdicchio. Un lavoro di qualità lo si sta facendo in Puglia, anche in Calabria con il Mantonico. E non tralasciamo la Sicilia”.

Pensa che la Sicilia possa diventare terra di bollicine?
“La produzione sull’Etna la trovo interessante, lì si possono fare sicuramente spumanti di alto lignaggio. Però occorre tradizione di cantina, attrezzature, capacità, volontà di spumantizzare. La Sicilia, come il sud e il centro Italia, deve puntare sulla qualità dei vitigni autoctoni, caratterizzarsi, farlo con la sapienza italiana e non con prodotti banali”.

Queste nuove realtà come possono posizionarsi rispetto a quelle del nord?
“Trento, Franciacorta, Oltrepo’, Alta langa, queste sono le realtà vocate, non ce ne devono essere altre, come produzione con metodo classico. A cui tutti devono fare riferimento. Le altre iniziative spumantistiche anche importanti, ma di qualità, non devono andare in concorrenza ma imparare”.

Di queste quattro aree ce n’è una che è più virtuosa o stanno camminando di pari passo?
“Una zona che è consapevole delle proprie forze è la Franciacorta, con grande capacità di espansione e di autogenerare un brand forte. Il Trento Doc, una zona che sta rinascendo sulla spumantistica e sta muovendo le proprie forze per andare anche all’estero, ha una capacità di espansione nell’immediato molto forte. L’Oltrepò pavese, realtà che nasce nel 1900, si sta diversificando sulle bollicine rosé con il Pinot Nero. Si sta rigenerando con una nuova veste. Alta Langa ancora rimane in una fase embrionale, anche se raccoglie nomi storici, ancora per quanto riguarda lo spumante di qualità è in piena fase di studio”.

E’ vero che lo spumante nasce in vigna? E che non si può parlare allora solo di metodo classico?
“La vigna è fondamentale. Basti pensare che in queste zone storiche la conversione e l’adeguamento dei vigneti per la spumantistica, attuati attraverso i piani viticoli, da 1800 ettari di Pinot Nero si è passati a 3000 di ettari, in 4 anni. Questi piani si dovranno attuare necessariamente nelle zone che vogliono affacciarsi alla spumantizzazione. Significa individuare i vigneti adatti alla spumantistica, rigorosamente quelli autoctoni, selezionare aree e zone adatte, attraverso un percorso di qualità che coinvolge tutta la filiera. Lo spumante è un vino difficilissimo, consapevolezza di questo non c’è mai stata, si pensava fosse facile. Si deve partire dalla scelta dell’uva, una scelta che in queste zone è stata di area, ma per lo più è una scelta aziendale”.

Quali bollicine beve?
“Bevo metodo classico, se posso scelgo, bevo e assaggio, tutto sia bollicine nazionali che francesi. In questo momento quello che preferisco è lo spumante che si è inventato il Consorzio dell’Oltrepò pavese, il Cruasé, spumante per la prima volta da pinot nero. Sto lavorando sui rosè per spiegare che in Italia il vino rosé deve essere ottenuto da uva rossa. Il Cruasé nel nome e di fatto esprime un Cru a sé. Perché è un grande vino di vigna. Son convinto che se il rosé è naturalmente rosa, può diventare un grandissimo vino dove tutte le fragranze e i frutti rossi si trasformano in bollicine importanti. Bisogna ripensare il rosé nella sua forma più assoluta.

Il futuro lo vede frizzante? In competizione con la Francia?“Sì. Per
ò per competere bisogna sviluppare all’estero una identità, brand forti. Ancora non è accaduto. Ancora le nostre zone storiche non hanno saputo sviluppare una capacità di aggregazione propositiva di mercato con un brand Italia. Occorre che il nome della Doc sia messo grande in etichetta”.

Manuela Laiacona