Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 46 del 31/01/2008

PER BACCO Quando il vino costava 18 tarì

31 Gennaio 2008
uva_hp_perbacco.jpg uva_hp_perbacco.jpg

    PER BACCO

uva_hp_perbacco.jpgSeconda puntata della ricostruzione dell’antica vitivinicoltura etnea attraverso le pratiche enologiche, le abitudini, la “filosofia produttiva” raccontate da cronisti del tempo

Quando il vino
costava 18 tarì

Sui costi di coltivazione dei vigneti etnei abbiamo precise informazioni da Diego Costarelli, sacerdote proprietario di vigne, sempre riferiti all'unità produttiva di mille viti:

• potatura 2 tarì
• due arature 5 grana
• conca 3 tarì
• impalare e ligare 15 grana
• jungo costa 5 grana
• rinterzo 2 tarì e 5 grana
• spoderare 1 tarì
• rifondere 2 tarì
• vendemmia 4 tarì
• pigiatura 2 tarì

È molto probabile che una vigna, allora, dava un margine di utile medio del 60%. Ai coltivatori venivano dati dal proprietario sino a 6 pasti al giorno, segno di un'agricoltura ricca, che se dava dei bassi salari largheggiava in vitto.
Così scrive Costarelli: “Gli agricoli ne' giorni che zappano […] dopo un'ora di fatica fanno colazione con pane e cacio, con sedani, con finocchi o con cipolle, o con peperoni, un'ora prima di mezzogiorno mangiano altra volta altro pane con ova o con pesce, o con stocco pesce, a mezzogiorno pranzano con cereali e pasta, o con erba da minestra mescolata a cereali, e mangiano altro pane e cacio, due ore dopo il pranzo fanno la merenda con altro pane, con sedani, peperoni e cacio, la sera cenano in seno alle loro famiglie o cerali o una minestra”.
La gestione prevalente dei vigneti era quella diretta. Tutti i trattati di economia agraria dell'epoca insistono sulla necessità della conduzione diretta a salariati (da Costarelli detta “fondi a mano”) per una coltura che “richiede continui lavori e continua attenzione da parte del proprietario”.
Il Sestini, nel sue memorie, dopo aver trattato della vite, scrive della vinificazione delle uve nei palmenti etnei: “Venuto adunque il tempo della vendemmia, solita ad aver principio verso gli ultimi di Settembre, e i primi di Ottobre…”. In questo caso Sestini si riferisce più alla zona di Mascali dove la vendemmia è anticipata rispetto ad altre contrade etnee più alte. E ancora: “Quali opere resesi nella vigna incominciano il loro travaglio con coglier l'uva, metterla in grossi Cuffini o Corbelli, e pieni che sieno, portarli sul collo al Palmento, edifizio fabbricato nel mezzo d'ogni vigna grande”.
Il toscano si sofferma sulla descrizione del palmento, ad egli sicuramente prima sconosciuto: “[…] Ed il Palmento […] è una specie di un vasto, e spazioso Trogolo nel quale si getta l'uva colta nella vigna, e portataci in quantità dalle opere; altre ve ne sono destinate a pestarla, o ammostarla cò i piedi, scorrendo il mosto in una Tina, la quale è collocata sotto un canale del detto Palmento, per ricevere il mosto; e finita la giornata, tutta questa pasta, o vinaccia si ripesta all'ultima goccia da tutte le opere, che sono a vendemmiare. Ciò fatto distendono egualmente tutta la massa della vinaccia e ripassano il mosto sopra, per farlo fermentare e bollire insieme, lasciandolo stare in alcuni parti tutta la notte, ed in alcune anco per tutto il giorno, e notte seguente, secondo il piacere o capriccio del Proprietario, valendo assai questa diligenza, la quale contribuisce a far venire il vino più colorato, e ad acquistare più resistenza, costando dall'esperienza che se quei vini non ribollano con la pasta nei Palmenti, non sono di lunga durata”.
cavallo_aratro_perbacco.jpgIn queste frasi il Sestini fa notare l'attenzione che si dava alla tecnologia di vinificazione, al fine di ottenere dei vini, cosiddetti, “navigabili”. I produttori avevano ben capito l'importanza di fare lunghe macerazioni del mosto con le bucce e raspi (allora non si poteva separare l'acino dal raspo, come si fa oggi), affinché si estraesse tannino e colore che insieme alla gradazione alcolica, relativamente elevata ed una discreta acidità delle uve, specie del Nerello Mascalese, dovuta anche al terreno vulcanico, permetteva ai vini di avere un'ottima resistenza biologica e chimica nei lunghi viaggi che doveva affrontare via mare.
Anche Costarelli riferisce dell'importanza commerciale di avere vini particolarmente ricchi di sostanze estrattive, ricercati dai commercianti a discapito di quelli meno ricchi: “Offrite ai negozianti di Riposto un liquido nero, sempre comprano, offrite un vino limpido, aromatico, alcolico, ma un po’ meno del nero, rifiutano”. Costarelli così scrive sulla vinificazione in uso all'epoca: “Nel Palmento spazioso che chiamano pista si trovano i pigiatori […] provveduti di scarpe solide spremono interamente il mosto,e ancora (il che non nuoce alla buona qualità del vino e della sua conservazione) il tannino della medesima buccia e del raspo. Venuta la sera si ripigian le uve state pigiate nel giorno sin che la buccia tutta si svuoti degli acini, e vi si versa sopra del solfato di calce da fresco calcinato. Con questo mezzo diamo al vino il colore violetto scuro ricercato dai nostri compratori”.
Anche G. A. Mercurio fa notare l'importanza di avere dei vini neri, cui, secondo il suo parere, contribuisce pure l'uso delle botti fabbricate con il castagno dell'Etna: “Le nostre botti son fatte di legno di castagno, e questa qualità di legno contribuisce pure a fare che i nostri vini riescano neri, come pure non poco contribuiscono i molti ferri coi quali sono connessi i diversi pezzi della botte”.
Le attuali tecniche enologiche che hanno dato degli ottimi risultati nella vinificazione del Nerello Mascalese e del Nerello Cappuccio si basano anche sulle lunghe macerazioni del mosto con le bucce, che se all'inizio danno dei vini “imbevibili” per astringenza e aggressività gustativa, in seguito, opportunamente affinati, si evolvono in prodotti dalle caratteristiche organolettiche eccellenti. Purtroppo nella vinificazione in vecchi palmenti dell'Etna le annotazioni di tecnica enologica riferiti da Sestini o da Costarelli non sono da molto tempo più effettuati. Nella vinificazione, il produttore etneo, comunemente, fa macerazioni molto brevi e spesso con poca cura, affidando il vino a botti sovente decrepite e carenti anche dal punto di vista igienico.
La fortuna dei vini etnei fu proprio la loro predisposizione ad essere “atti alla navigazione”. Sicuramente erano dei vini con caratteristiche organolettiche diversi da quelli attuali, più grossolani, ma avevano il grande pregio di non rovinarsi nel loro trasporto via mare, fatto, allora, non di poco conto, anzi sembra che più tempo restavano in viaggio, a detta di Sestini, più miglioravano: “Fu riconosciuto che questi vini quanto più stanno sopra mare, tanto più si depurano, con deporre quella parte tartarosa, che tali vini sogliono avere, riuscendo di buona qualità, grati al gusto, e molto apprezzati alla tavola; il quale commercio molto esteso era fatto dai Napoletani, Genovesi, Francesi, e da altre Nazioni ancora”.
Sull'esportazione dei vini etnei, Sestini aggiunge: “Metà delle quali si spedisce per fuori Regno, ed a mio tempo i genovesi erano quei che ne facevano il più gran commercio a tal segno, che non solamente venivano a caricare il vino già fatto, ma in tempo della vendemmia a caricare anche il mosto. Palermo poi ne consuma una buona quantità, come pure altri luoghi dell'isola”. Sestini non trascura, nelle sue memorie, neanche i prezzi allora praticati e il fatto che dipendessero molto dalla qualità e dalle zone di provenienza: “I prezzi […] secondo le respettive qualità, e Contrade”.
Intorno al 1770 il buon vino a bocca di cannella, cioè spillato dalla botte, si pagava, nella zone di Mascali, dai 18 ai 24 tarì. I vini di Mascali spuntavano prezzi superiori a quelli di Vittoria che, se pur eccellenti e ricercati in zona, avevano minori sbocchi commerciali, dato che, anche se di alta gradazione, erano “meno resistenti alla navigazione di quelli di Mascali”.


Salvo Foti
(2. fine)