Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 69 del 10/07/2008

LA TRADIZIONE Se il gusto si fa chiocciola

09 Luglio 2008
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    LA TRADIZIONE

lumache_hp69.jpgI “babbaluci”, lumache terrestri, tipici della cucina palermitana, soprattutto in questo periodo. Ecco alcune ricette

Se il gusto
si fa chiocciola

Il termine “babbaluciu”, voce ufficiale del dizionario siciliano con cui si indicano le chioccioline terrestri, viene dalla parola greca micenea arcaica ‘ßoußalàkion’ che vuol dire “piccolo bisonte”, per via delle sue corna.

E proprio dalle corna di questi gasteropodi terrestri derivano anche le celebri note di “Viri chi danno ca fannu i babbaluci ca cu li corna ammuttano i balati”, canzone ripresa in versione ska da Roy Paci che lega alle corna di queste lumache una sorta di ostinata determinazione.
Abbiamo chiesto a Gaetano Basile, palermitano Doc, giornalista ed enogastronomo appassionato di cultura siciliana, di raccontarci l’origine dell’uso in cucina, specie nel periodo del Festino di Santa Rosalia (patrona di Palermo), dei babbaluci. Basile, che è anche accademico della cucina italiana, ha pubblicato, tra le altre cose, un piccolo trattato proprio su queste piccole lumache, in occasione del convegno internazionale di elicicoltura tenutosi a Cherasco dal 23 al 25 settembre del 2006.
Il termine scientifico di questa ghiottoneria cornuta – per la precisione della varietà più conosciuta e mangiata dai palermitani – sarebbe “Helix o Theba pisana”, piccola e biancastra, raramente tendente al rosa, comune nelle provincie di Palermo e Trapani. Questa specie vive in luoghi secchi ed assolati, generalmente in prossimità del mare. Forma sovente dei grappoli sugli steli delle piante. “Fimmini a vasari e babbaluci a sucari ’un ponnu mai saziari”, dice d’altronde un proverbio siciliano. “I palermitani, dalla notte dei tempi mangiatori di ‘babbaluci’, nel corso della storia non hanno disdegnato – dice Gaetano Basile – oltre al classico ‘babbaluciu’, anche i ‘babbaluci cilesti’, cioè la ‘Jantina communis’, dalla conchiglia fragile e di color ceruleo, che un tempo si trovava nel golfo di Palermo, e altre due specie marine: la ‘Natica millepunctata’ e la ‘Natica castanea’. Quella terrestre è, come tutti i siciliani sanno, la vittima sacrificale per festeggiare con tutti gli onori il Festino. Da qui la ricetta dei ‘babbaluci ru Festinu’, che vengono soffritti con aglio, olio d’oliva, sale, abbondante pepe nero e prezzemolo”.
“Sono tre le famiglie di lumache terrestri conosciute in Sicilia – spiega il giornalista palermitano – anche se esiste una notevole confusione nei nomi dovuta alle notevoli differenze linguistiche da provincia a provincia: alla prima famiglia, quella dei classici ‘babbaluci’, appartengono – secondo le zone – i vavaluci, cazzicaddi nel Ragusano e i vucalaci parola di probabile origine araba. Alla seconda famiglia appartengono gli ‘Attuppateddi’, scientificamente noti come ‘Helix Naticoides’, che si trovano nella terra argillosa dopo le prime piogge autunnali. Anche quest’ultimi assumono nella regione diversi nomi bizzarri come izzu, scauzzu, scataddizzu e munacheddi. Infine – conclude lo scrittore – la terza famiglia è quella dei ‘Crastuna’, (italiana vignaiola o martinaccio, ndr) dal colore bruno-verdastro e il cui nome scientifico è quello di ‘Helix vermiculata’: conosciuti anche come ‘settesordi’ o ‘carrinu’, ma anche barbaniu o muntuni”.
lumache_dentro69.jpgIl ‘babbalucio’ fa parte di quell’antica tradizione siciliana dell’uomo, o più che altro della donna, che andava a raccogliere tutto ciò che era edibile. Un uso che viene da un passato antichissimo. D’altronde noi siciliani mangiamo ‘babbaluci’ dall’età della pietra. La dimostrazione è al museo Paolo Orsi di Siracusa, dove sono custodite due specie di pignate con il coperchio forato che, secondo gli studiosi, servivano a far purgare i ‘babbaluci’ che venivano tenuti almeno per tre giorni chiusi dentro questi contenitori per far svuotar loro gli intestini.
Il ‘babbalucio’ non va mangiato appena trovato perché spesso si nutre di erbe che per l’animale sono assolutamente innocue mentre potrebbero risultare tossiche per l’uomo, anche per questo è buon uso farli purgare per almeno tre giorni. Per favorire la pulizia dell’intestino di questi piccoli animali, in questa fase della preparazione si aggiunge della mollica di pane o del pangrattato, in modo che le lumache si nutrano di questo e si sbarazzino di tutto.
L’uso gastronomico è legato indissolubilmente alla festa, al Festino di Santa Rosalia in particolare, non per qualche tradizione, ma solo perché è l’estate il momento del calendario in cui è possibile trovarli attaccati alle sterpaglie del terreno. Il tipo di ‘babbaluci’ più conosciuto si trova esclusivamente nelle provincie di Palermo e Trapani, e curiosamente nelle altre zone dell’Isola non esistono o comunque ce ne sono pochissimi. Le ricette più note sono i ‘Babbaluci a picchi pacchiu’: cotte – a fuoco basso per far uscire le poverette dal loro guscio – in un tegame, il cui bordo si ricopre di sale umido e poi bollite per qualche minuto, scolate, e soffritte in olio d’oliva con la cipolla tritata, pomodori pelati a pezzetti, sale, pepe e prezzemolo. “Nella parte orientale dell’Isola, in particolare nel Catanese – spiega Basile – si preparano ‘Attuppateddi o Crastuni arrustuti’ e i ‘Crastuni fritti’ che, dopo la cottura, con l’aiuto di uno stuzzicadenti, si estraggono dal guscio, si passano nella farina e nell’uovo battuto, quindi nel pangrattato, e si fanno dorare nell’olio d’oliva bollente. E infine nella versione più elegante e nobile, i “Crastuni del Monsù” saltati in padella con burro, aglio e prezzemolo e gli “Attupateddi ccu sucu russu”, soffritti con la cipolla in olio d’oliva, concentrato di pomodoro ben concentrato, sale e pepe”.
“Mangiare ‘comme il faut’ le lumache è segno di riconoscimento: si devono succhiare direttamente dal guscio dopo che con i canini si è creato quel forellino che ne permette la fuoruscita – dice lo studioso palermitano – Insomma, sicilianità vuole che a ciascuna di loro sia riservato un bacio post mortem. È chiaro che – conclude Basile – è previsto soltanto l’uso delle dita, della bocca e una notevole forza aspirante. Soltanto alle “educande romantiche” di buona famiglia fu consentito l’uso di un uncino – d’argento, naturalmente – per evitare quel poco elegante risucchio.”
Artisti, attori e scrittori hanno spesso dedicato alcune delle loro pagine e performance alle lumache palermitane, come l’esilarante ‘filosofia del babbaluciu’ (“che nasce ed ha già una casa sulle spalle e anche da morto se la fa su…”) che, a ‘Vivaradio2’, Tony Sperandeo ha spiegato a Fiorello e Daniela Gambino che, nel 2005 ha pubblicato il simpatico “Bukowski e babbaluci”, il cui protagonista, Benedetto, assomiglia ai babbaluci, che nel capoluogo siciliano nel giorno del Festino, sono gustati come prelibatezza e salvati da un ineluttabile destino strisciante.


Junio Tumbarello