Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 1 del 22/03/2007

SPUNTINI DI GUSTO: Pane, Vastedda e soprusi

22 Marzo 2007

    SPUNTINI DI GUSTO

La pausa pranzo molto slow dei contadini e quel vino imbevibile…
Pane, Vastedda e soprusi
Aneddoti sul formaggio di pecora al tempo dei gabelloti

”Parri’ u cafe’ si pigghia santiannu”, ovvero il caffe deve essere preso bollente e se ci si scotta puo’ anche scappare una bestemmia. 

”Grazie signorina… ma io non posso farlo”, risponde l’interlocutore all’anziana che gli porgeva la tazzina. E sorride. Gia’ per lui era impossibile imprecare. Era una mattina degli anni ’70 a Godrano. E’ questo un frammento di dialogo fra padre Pino Puglisi e una donna. Il prete ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 fu infatti parroco del centro del Corleonese dal 1970 al 1978. Un territorio questo famoso per il caciocavallo.

Nelle campagne i contadini nelle pause di lavoro soprattutto nel bosco di Ficuzza mangiano ”Pani e tumazzu”, il tipico pasto di una volta, che diventa ”vastedda e vastedda”, se il pane e’ di forma rotonda ed il formaggio la vastedda, una pasta filata ottenuta dal latte di pecora, dal colore bianco e dal sapore leggermente acidulo. Ma la vastedda non e’ un formaggio che si produce ovunque, ne’ con qualunque latte. La si fa solo nella Valle del Belice (Comuni di: Calatafimi, Campobello di Mazara, Castelvetrano, Gibellina, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Ninfa e Vita nella Provincia di Trapani; Santa Margherita Belice, Montevago, Menti e Sambuca di Sicilia nella Provincia di Agrigento e Contessa Entellina nella Provincia di Palermo), con il latte della pecora Valle del Belice, una popolazione ovina di circa 60.000 capi, istituita a razza da circa un decennio ed ottenuta dall’incrocio delle razze Pinzirita, Comisana e Sarda. Alle falde di monte Busambra i pastori che portano le mucche a pascolo si concedono lunghe pause pranzo, slow food in confronto e’ sinonimo di frenesia. Sulle tovaglie distese sui prati oltre al formaggio e al pane tagliato, appoggiandolo al petto,  ecco barattoli con pomodorini e melenzane sott’olio, cipolle fresche. E bottiglie di vino ‘sanzero’, considerato genuino e abbastanza imbevibile.

 Pranzi pantagruelici rispetto ad anni passati. Anni di stenti nel secolo scorso dove i braccianti, soprattutto prima dell’occupazione delle terre, avvenuta dopo il decreto Gullo emanato il 19 ottobre del 1944, soggiacevano alle angherie dei sorveglianti. A ognuno di loro veniva dato un uovo dai proprietari delle campagne o dai gabelloti. Alimento pregiato in periodi di fame. Era una sorta di gratifica da ”mantenere segreta”. Ognuno di loro credeva cosi’ di essere l’unico beneficiario del dono culinario. E cosi’ al grido di ”attia ri lovu”, ”tu dell’uovo”, lanciato dai padroni dei terreni o dai delegati dei feudatari ogni bracciante convinto che si riferisse a lui abbassava lo sguardo e zappava con maggiore lena. Ricatti di altri tempi. Quando il mobbing non esisteva.

 

Giovanni Franco