Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 182 del 09/09/2010

IL PERSONAGGIO La cucina di Ciccio Sultano, nell’isola al centro del mondo

04 Settembre 2010
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IL PERSONAGGIO

Provocazioni, fantasia, storia e mito nei piatti dello chef ragusano. Un viaggio alla ricerca dell’identità dei sapori

La cucina di Ciccio Sultano,
nell’isola al centro del mondo

Per gentile concessione della rivista Ulisse, mensile della compagnia di bandiera Alitalia pubblichiamo questo articolo dedicato a Ciccio Sultano, chef del Duomo di Ragusa.

di Nicola Dal Falco

Se c’è un avverbio per Ciccio Sultano, per la sua cucina siciliana, al centro del Mediterraneo, questo avverbio è “allora”, ad illa ora: in quell’ora e in quel luogo a mezza via tra due e più sponde.  Una cucina che aggiunge, cresce, ingloba non per troneggiare, ma per simpatia verso il segno più, l’incontro, l’abbraccio e quando serve, la lotta. Barocca, come dice lui stesso, anche se il termine, oggi, è quasi solo dispregiativo.


Eppure il Seicento fu il secolo della scienza, del teatro, degli «infiniti mondi» visti con l’occhio di Galileo e il cuore in subbiglio di Giordano Bruno: un passo decisivo verso la modernità.
La Sicilia sta in mezzo, ha il dono della medianità, è tringolare nella forma e nel contenuto. Ospita la montagna per antonomasia, iddu cioè quello, ovvero il vulcano, l’Etna fumante, infero e celeste al tempo stesso, che punta in alto, ribollendo dalle viscere.
Impossibile che un’immagine così potente, perché cosmica e al tempo stesso quotidiana, non trovasse una forma familiare, controllabile e addirittura digeribile nell’arancina, piramide tellurica anch’essa, fatta apposta per svelare la complessa identità siciliana.
«La sintesi dell’arancina – scrive il cuoco del ristorante Duomo di Ragusa, nel suo libro più bello La Variante Sultano (Extempora, 2007) – è una serie di dominazioni. Ha subito l’evoluzione della Sicilia».
Greca per la tuma, il formaggio fresco con cui era riempita in origine, araba per il riso, tinto nello zafferano, francese per il ragù e infine rossa per il pomodoro, giunto via Spagna dall’America.
La Sicilia è anche l’isola del Sole, dove pascolavano le vacche sacre, tante quanti i giorni che concede il destino, quello di Ulisse, l’eroe del ritorno, capace di affrontare la prova tremenda dell’attesa.
Il suo viaggio passa attraverso la caverna di Polifemo, Scilla, e la reggia dei venti come per la cruna dell’ago.
È il gorgo che risucchia e ti perde – l’anima bestiale che corteggia la divina curiosità – lasciandoti l’unica ricchezza possibile che è il sapere d’essere ancora vivi.
Ridicolo, allora, rifugiarsi nel minimalismo, nell’eleganza del grigio. Qui, la luce è così bianca, accecante da confondersi con l’ombra stessa, con il suo opposto.
Basterrebbe leggere nella grana delle foto e nelle parole di Ferdinando Scianna, siciliano e fotografo, quando afferma in un’intervista che: «la luce spacca» aggiungendo che se gli interessa il sole è «perché fa ombra». Poco o nulla, insomma, di apollineo, niente a che fare con le cartoline del Gran Tour e elioterapia, predicata nell’emisfero boreale. La verità è altrove e dalla troppa luce occorre guardarsi.
Perciò, quando, per la prima volta, mi sono ritrovato uno dei piatti di Ciccio Sultano ho pensato che in realtà volesse farmi mangiare una storia, allestendo la scena di un fatto, e che questo procedimento avvenisse per accumulazione come i titoli di re, regine e dei.
Ma la cosa più sorprendente era che l’epica di questo fatto avesse a che fare con un gesto estremo quanto la mattanza dei tonni,
e che come nel teatro dei pupi, teatro di parola, per percepire il mare bastasse un fondale dipinto o il suono ripetuto della parola stessa.
Un misto di concreto e di astratto, una forza bilanciata tra il dire e non dire: un duello in versi.
La totale allusione a quel genere di pesca stava sotto gli occhi, raccolta nel fondo del piatto. Cosa rendeva giustizia al mio stupore, mentre assaggiavo la ventresca di tonno al carbone, un piatto del 2005?


Ventresca di tonno al carbonio

Il semplice fatto che il rito sacrificale fosse presente e esorcizzato nel sugo di vitello in cui puntava i piedi la carne del gran pesce a sangue caldo.
Le grida del raìs che sprona gli uomini, il mare che si arrossa, anziché continuare a uccidere, lievitavano come parole tra un boccone e l’altro. Nutrivano in forma di racconto, scatenando l’infinito incipit di un “allora”.
In un certo senso mi ero messo all’ombra ad ascoltare.
«Io sono siciliano, io sono barocco – sentenzia Ciccio Sultano con la milizia di un innamorato – io mi sento di essere la somma della mia cultura, del mettere tante cose insieme».
Il che tradotto in pratica culinaria, vale quest’altra frase: «una cucina a strati: non è voluta ma poi lo è – ragioni di precedenza».
Ancora un modo di spiegare la ricchezza di un crocevia, il suo paesaggio umano che nel caso della Sicilia esalta per ragioni storiche il contrasto tra dolce e salato.
L’esempio potrebbe venire da uno dei piatti che compongano il menu illustrato nel libro La variante Sultano, ovvero il pisello in bocca, dove la stratificazione è orizzontale: sopra un striscia di zuppa di pisello si dispongono a distanza di tre centimetri due “mucchietti” formati da una fetta di pane tostato sottile come carta, il formaggio ragusano dop, la bottarga e un’alice.


Pisello in bocca

Il dolce del pisello, il profumo d’erbe del formaggio e il salato di alice e bottarga, uniti in un percorso ambivalente di andata e ritorno tra pascolo e spiaggia.  Al lato, possiamo solo notare che i piselli compaiono nell’orto a primavera e che le alici sfiorano le coste all’inizio dell’estate. Solo allora quel piatto nasce.
Dice, ancora, il cuoco Sultano, mostrando un’intesa assoluta con l’uomo Ciccio: «la primavera, aprile, maggio e giugno, è il periodo dell’anno in cui sono più bravo; in agosto, ad esempio, il pesce non è più così buono, non è lo stesso come quando è in amore».
L’accordo con i cicli naturali è insomma importante, ancor di più in quei momenti di felicità in cui il mondo sembra non sottrarre nulla della sua bellezza. Allora, verrebbe ancora da insistere, ha preso forma molluschi su finta pizza dove la zuppa di mozzarella di bufala e la cialda svolgono l’umile e sfarzoso compito del lacchè, seguendo a piedi e di corsa la carrozza del reverendissimo gamberone rosso, dell’evanescente seppia, dei malinconici totani, dei polipetti, figli cadetti destinati alla tonaca e alla spada con l’eccezione del calamaro, futuro avvocato con ambizioni letterarie. 
 


Molluschi su finta pizza

Un piatto che prende gli occhi, sapido e fresco, puro trionfo d’onde, da gustare «pensando alla fila di persone in pizzeria che aspetta di consumare il proprio sabato sera» come sottolinea l’autore della ricetta.
Se è vero che la Sicilia ha il mare intorno è anche vero che lo contiene. La Sicilia di terra è altrettanto sconfinata e forte. Per questo, troviamo dei piatti tra la campagna e il mare come gli spaghetti artigianali (fatti in casa da Ciccio) di farine siciliane con infusione d’olio all’aglio fumè, polpa di ricci e molluschi crudi su frullato di asparago selvatico in cui già l’elenco degli ingredienti scandisce il passo o i ravioli con ripieno di sugo di maiale su crema di ricotta alla maggiorana, scaglie di ragusano dop e favette fresche, rosario di sapori, colti nell’orto del massaro.


Spaghetti con ricci crudi e salsa di asparagi


Ravioli farciti di sugo di maiale con salsa di ricotta e maggiorana

Definivamo barocca la cucina del cuoco di Ragusa, ma è anche solo affabulatoria, di chi torna da un viaggio o racconta le meraviglie che ha appena letto, vedi ad esempio: coscio e costolette d’agnello siciliano con caponata verde e cialda croccante di grano Russello al caffè e cardamomo, al fascino dell’antica Persia, reso attraverso il contrasto di dolce/selvatico, croccante amaro/acido o la cernia in mantello di pane casareccio con olive nocellara, menta e lattuga brasata detta anche L’alessandrina, ovvero attacco a falange del sultano.
A mo’ di conclusione isolana, interlocutoria per definizione, cito una parte essenziale dell’autoanalisi di Ciccio Sultano che in quanto perfezionista, curioso e siciliano afferma:«tra vanità e narcisismo a me basta vanità» perché: «quando un cuoco si trasforma in piccolo Mosé è veramente troppo».