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Non c’è cibo senza architettura

11 Aprile 2013
cibo-architettura cibo-architettura

Dalla scoperta del fuoco, il cibo e tutto ciò che induce, ha condizionato e continua a condizionare, spesso in modo invisibile la vita dell’uomo, e di conseguenza l’architettura che è parte imprescindibile di essa.

Persino la postura dell’uomo è condizionata dal cibo. Nello specifico dell’architettura, il cibo ha “guidato” la distribuzione dello spazio, perché per esempio, i luoghi dove si produce, sono diversi e distanti dai luoghi della residenza.
I luoghi dove si prepara il cibo, per molti motivi sono separati da quelli dove si consuma, e quindi si hanno spazi differenti dal punto di vista architettonico.
E così potremmo continuare ad elencare gli infiniti modi in cui il cibo interviene prepotentemente nell’architettura.

Le architetture, da quando l’uomo da nomade divenne sedentario e costruì dapprima il villaggio e poi la città, sono state costruite in relazione al lavoro che svolgeva, quale che fosse: coltivatore, soldato o commerciante, e di conseguenza dalle caverne alle capanne su palafitte e alle dimore in pietra, la struttura architettonica, ha obbedito e ha ruotato intorno al luogo del cibo, dalla preparazione al consumo, sia nel privato che nel pubblico.

Volendo approfondire la ricerca sull’argomento, per caso, attraverso Google ci siamo imbattuti su un blog molto curato ed approfondito al quale si rimanda e del quale riportiamo l’ultima “curiosità”. Arrostire è uno dei più grandi passatempi degli americani, ma questa pratica, per quanto piacevole, non è certamente eco-friendly; legno, propano, carbonella, bruciando producono infatti emissioni nocive di CO2 liberandosi nell’aria.

Wilson ha sviluppato l’idea in Nigeria, dove il legno, usato per cucinare, provoca un gran numero di problemi; non solo il disboscamento di ampie zone di foresta, ma l’incremento di malattie respiratorie oltre che degli stupri ai danni delle molte donne che si recano nei boschi in cerca di legna da ardere. La tecnologia di Wilson imbriglia la luce solare immagazzinandola per permettere di cucinare per quasi 25 ore di seguito a una temperature sopra al dei 450 gradi Fahrenheit.Una lente di Fresnel, usata per catturare l’energia del sole e convogliarla in un contenitore con Nitrato di  Litio, funge da batteria, immagazzinando l’energia termica e rilasciandola poi gradatamente per favorire una cottura all’aperto anche durante le ore notturne. Esistono molti fornelli solari, ma, secondo Wilson, “non sono molti quelli che usano un deposito di calore latente come un attributo per cucinare il cibo.”

Matteo Tusa

http://barbarafalcone.wordpress.com/