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Vini e territori

Santa Maria La Nave, i vitigni reliquia e tanto altro. “L’Etna è unico e va oltre le mode”

26 Gennaio 2021

di Francesca Landolina

Storie di piccole aziende. Anzi piccolissime. L’Etna fa miracoli anche per loro. Perché non accade ovunque che con un paio di ettari riesci a creare un percorso virtuoso che diventa sostenibile soprattutto dal punto di vista economico. E riesci a fare un vino pure molto buono.

Come accade a Sonia Spadaro Mulone che col marito ha intrapreso il mestiere di vignaiola a 360 gradi. Con risultati più che soddisfacenti. Sonia, una laurea di economia in tasca, mamma e in attesa del secondo figlio, oggi è una vignaiola e fa avanti e indietro da Milano alla Sicilia, sull’Etna, per guidare la sua cantina, Santa Maria La Nave. La scelta del nome dell’azienda ne è già un esempio. La vocazione è totalmente femminile. Santa è il nome di sua mamma, Maria quello della suocera che per lei è come se fosse una seconda mamma e Nave è il nome della contrada, nel territorio tra Bronte e Randazzo, “donna” anch’essa perché terra madre. Noi la intervistiamo perché colpiti dai suoi vini, uno soprattutto, il Doc Etna Rosso Calmarossa 2016 che è rientrato tra i Vini Imperdibili della nostra Guida ai Vini dell’Etna 2021 fresca di stampa (qui il link per acquistarla>). Lei ci racconta la passione e i tanti sacrifici coronati da molte soddisfazioni, che l’hanno spinta a far nascere i suoi primi vini in contrada Nave e poi ad acquistare terreni su Monte Ilice a Trecastagni, ereditando quello che lei chiama il santuario della biodiversità: il vigneto dove Don Alfio, il contadino gentiluomo, le trasmetteva l’amore e la forza di salvaguardare il patrimonio viticolo più antico dell’Etna, quello dei vitigni reliquia, quasi estinti. Ci torneremo.

Facciamo prima qualche passo indietro. Sonia oggi dedica la sua vita al vino, ma è stata astemia in passato. E non è uno scherzo. Cosa l’ha spinta ad innamorarsi del vino e dell’Etna? Cosa se non l’amore stesso? “Al primo appuntamento con colui che poi diventerà mio marito, non potevo tirarmi indietro e così ho bevuto un calice di vino rosso. Eravamo a Taormina. Da lì la prima scintilla, ma è stata la visione della terra di contrada Nave a innescare dentro di me l’amore e la voglia di dare vita alla mia vigna e ai miei vini”, racconta. Ed è così che inizia il suo percorso, un po’ alla volta, da quella contrada, tra i 1.100 e i 1.200 metri sul livello del mare da cui nascono il Millesulmare da uve Grecanico Dorato in purezza e il metodo classico Tempesta, prodotto solo nelle migliori annate. Don Alfio, il contadino gentiluomo, come lei ama chiamarlo, le ha fatto da mentore. È stato Don Alfio a custodire le viti di Greganico dorato e di Albanello, da cui in futuro nascerà un vino in purezza. Ed è stato sempre lui a portarla su Monte Ilice, dove per più di 55 anni ha trascorso la sua vita lasciando in vita le tracce di una viticoltura ormai dimenticata.

Cosa c’è di speciale su Monte Ilice? “C’è il senso del bello, la cui anima offuscata dal tempo è da recuperare. Per questo ho scelto di ristrutturare le vigne su questo Monte – i spiega – Don Alfio ha fatto questo nella sua vita. Andavo spesso con lui su quel monte e quando dopo mesi decise di passare a me il testimone e la responsabilità del vigneto, e insieme riuscimmo a convincere tutti gli altri proprietari, iniziai la mia missione. La ristrutturazione è stata un’opera titanica in quei tre ettari e mezzo, dove la coltivazione della vite ad alberello è eroica perché la pendenza del terreno in alcuni tratti supera il 40 per cento e tra le vigne si intervallano numerosi alberi da frutto. Ma ciò che c’è di speciale in quelle vigne è il tesoro che Don Alfio ha tramandato: le viti di vitigni reliquie che è mio compito custodire e tramandare”. Ci sono varietà sconosciute come Terribbile (apparentemente chiamata così perché questa varietà era in grado di resistere alla fillossera), Madama Nera e Madama Bianca. “Si tratta di varietà rare; nessuno le coltiva ed è quasi impossibile trovarli anche nei vigneti più antichi dell’Etna – racconta – Questi vitigni saranno vinificati in purezza per una produzione di nicchia e limitata, circa mille bottiglie per tipo. Su Monte Ilice già nasce il mio Etna Rosso Calmarossa, ma nasceranno anche i vini dai vitigni reliquia in purezza. E poi il vino dal vigneto storico di Don Alfio, un omaggio al mio mentore, che consideravo come fosse mio nonno. Nel suo vigneto è riuscito a tutelare alcuni vitigni a bacca bianca molto antichi e prephylloxera. Ci sono più di dieci varietà, principalmente Carricante, ma anche Catarratto, Lucido, Minnella bianca, Grecanico, Insolia, Zu ’Matteo, Madama Bianca, moscatello bianco dell’Etna, Vesparola. Li utilizzerò per il nostro bianco. Don Alfio mi diceva sempre che gli antichi contadini che secoli fa si prendevano cura della vigna, riuscivano a selezionare questi vitigni per fare in modo che maturassero tutti allo stesso tempo. Incoraggiata da qualche amico e da alcuni clienti appassionati nel 2019 ho deciso di vendemmiare queste uve. Il Re D’Ilice: così si chiamerà l’Etna Doc Bianco (circa mille bottiglie) dedicato a Don Alfio, che per me è il re del Monte Ilice. Avrò il piacere di condividerlo con i miei clienti e con i winelovers nel 2022”.

Oggi Sonia coltiva in conduzione biologica certificata e in biodinamica circa 4 ettari e mezzo di vigneti per una produzione di circa 10.000 bottiglie, ma non pensa di crescere in quantità. La base della sua azienda è a Viagrande. Vinifica dalla famiglia Benanti, per la vicinanza ma anche per un rapporto di stima e amicizia e affina i suoi vini presso la sua cantina ipogea. E naturalmente si comprende come un progetto così di nicchia riesca a diventare anche sostenibile dal punto di vista economico sebbene sia necessario investire e scommettere. Per Sonia un vino deve rispecchiare e rispettare l’ambiente da cui nasce. “Se così è – afferma – ogni annata avrà sempre lo stesso fil rouge, il territorio, ma nel calice ci saranno sensazioni diverse. Il vino deve solo essere consono a ciò che gli antichi viticultori ci hanno trasmesso”. E poi sul vino dell’Etna aggiunge: “Siamo fortunati, ogni tanto la Montagna alza la voce, ma ci dona tanto. Il vino etneo non è una moda passeggera, si parlerà di Etna per anni e per sempre, ma bisogna rispettare l’ambiente, senza mercificazioni”. Impegnata anche nella vendita del suo vino, lo esporta per il 70 per cento in 20 Paesi esteri, in Europa, America, Asia, Australia. Nel frattempo, pronta a diventare mamma di nuovo, si augura che la pandemia finisca, per riprendere i suoi progetti. “Vorrei far conoscere le mie ricerche, la mia passione, per trasmettere il grande patrimonio di viticultura che l’Etna ci regala e lasciarlo in eredità ai miei figli e a chi, dopo di me, tramanderà il tesoro e gli insegnamenti che Don Alfio ha lasciato a me, in custodia”.