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Birra della settimana

Small Earth di Monkisk

30 Luglio 2023
L'etichetta della Small Earth di Monkisk L'etichetta della Small Earth di Monkisk

Si vola all’estero, addirittura oltre l’Oceano Atlantico, in questa puntata di “Una per tutto, tutto per una”. La nostra rubrica periodica volta a “dipingere”, di volta in volta, il “ritratto” di una specifica birra, con il suo temperamento, ci porta infatti oggi negli Stati Uniti; e in particolare nella parte meridionale della California, dove, entro i confini della contea di Los Angeles, troviamo la città di Torrance: una realtà urbana da quasi 150mila abitanti, nota per l’alternanza tra edifici e spazi verdi, questi ultimi distribuiti in una trentina di parchi civici. Qui, dal 2012, sbuffano i fermentatori della “Monkish Brewing Company”, nel cui catalogo troviamo, tra l’altro, un’interessante Saison in versione “table”: ovvero di medio-bassa gradazione. È la “Small Earth”, il cui contenuto etilico si ferma a un morigeratissimo 2.9%: e le cui (tante) altre virtù ci accingiamo a “raccontare”, riservando come sempre speciale attenzione al fronte degli abbinamenti gastronomici

SMALL EARTH: ANATOMIA DELLA BIRRA
Diciamolo subito: si tratta di una Saison non solo di tipo “ipocalorico”, ma anche (e potentemente) di genere “Farmhouse”. Con tratti rustici, in poche parole: merito di un processo produttivo assai aperto al contributo di microorganismi non convenzionali; i quali, con le loro prerogative, affiancano il lavoro dei più “disciplinati” saccaromiceti. Ma andiamo al sodo. La base è una miscela secca di malto Pils; da cui si ricava un mosto affidato, per la conversione alcolica, alla coltura “della casa”: una “madre” autoprodotta nel cui abbraccio convivono lieviti selezionati per lo stile di riferimento (il Saison, appunto), altre specie di natura, invece, non addomesticata (brettanomiceti) e alcuni ceppi di batteri lattici. Per di più l’avvio della fermentazione è ospitato, brevemente, in fusti di rovere; mentre, a rifinire il procedimento, abbiamo un dry-hopping da Motueka e Mosaic (varietà di luppolo, rispettivamente, neozelandese e americana), nonché un condizionamento in bottiglia da 75 centilitri, chiusa con tappo a fungo. Ed ecco cosa si presenta al banco d’assaggio. Colore paglierino velato e sottile bordatura di schiuma bianca; aromi agresti di pane appena infornato, frutta (pesca, melone bianco), fiori (bosso), yogurt (magro e al limone), afrore selvatico e da aia contadina (pelliccia animale, mani sudate, medicinale); palato nervoso e goloso, dotato di corpo sottile, bollicina fine, bella vibrazione acida (lattico-citrica), finale fresco senza alcun calore alcolico né alcuna significativa vena d’amaro. Una personalità che abbiamo testato in abbinamento su tre piatti diversi.

CON LA BRUSCHETTA TOSCANA
Fette di pane (insipido) ben tostate, una passata d’aglio sulle loro superfici calde, un filo di extravergine d’oliva a completare l’opera. Ci vogliono pochi minuti per preparare la nostra portata d’ingresso: la bruschetta alla toscana; ovvero, didascalicamente, la “fettunta”. Eppure, a dispetto della sua semplicità, la resa in tavola è garantita: il che rappresenta già un punto di contatto con la nostra birra, campionessa sia di bassa gradazione sia di densità sensoriale. E poi le affinità proseguono così… Consistenza delicata (pur nella croccantezza) da parte del boccone, spessore esile da parte della sorsata. Una modesta frazione grassa nel piatto (il velo d’olio), un’agevole gestione lipidica da parte del bicchiere (modesto in alcol, ma vigoroso nella combinazione bolla-acidità). Un’aitante aromaticità da parte dell’antipasto (non trascurabile anche nei suoi aspetti di potenziale stucchevolezza, dovuti all’aglio), una decisa capacità di smaltimento di tali olfattività talvolta insistenti, da parte della “Small Earth”, grazie, ancora una volta alla sua incisiva acidità. In tre parole: buona la “prima”.

CON I TAGLIOLINI AL LIMONE
Dei tagliolini, come seconda portata. All’uovo, per l’esattezza, conditi con una salsa al limone: quest’ultima preparata con la scorza grattugiata e il succo dell’agrume, da amalgamare sul fuoco, in padella, con olio e burro. Una guarnitura che viene aggiunta semplicemente alla pasta; e che può essere rifinita, volendo, con del timo, da introdurre per ultimo, in fase d’impiattamento. Simili a quelle viste in opera con la bruschetta risultano le regole d’ingaggio tra la birra e la massa amidaceo-lipidica del boccone, sebbene qui più consistente in virtù del burro: ma la piccola-grande Saison sa farsi valere, fluidificando a dovere il palato. Del tutto diverso invece, rispetto al primo round, il ruolo giocato dal limone. La cui acidità va in sovrapposizione attenuativa con quella della sorsata; e il cui timbro odoroso asseconda le olfattività della birra, di matrice (come detto) lattica e citrica: un allineamento aromatico piatto-bicchiere che, statisticamente, riesce gradito al consumatore. E anche a noi.

CON LA TARTARE DI POLLO
Chiusura con la carne. Ma non manzo o selvaggina: fibre magari troppo coese e tenaci per la nostra Table Beer. Meglio avicola, ecco: da qui l’idea di una tartare di pollo. Le cui carni, tagliate a cubetti, sono state cotte al vapore (giusto 5 minuti), mediante esposizione alla condensa rilasciata scaldando sul fornello una miscela apposita: una massa liquida ottenuta bollendo insieme acqua, vino, gambi di prezzemolo e cipolla. Quindi le operazioni finali: preparare una salsa di condimento emulsionando olio, aceto bianco, sale e pepe; versarla, come guarnitura, sui cubetti di pollo; aggiungere (volendo) le foglioline separate dai gambi di prezzemolo di cui sopra; portare in tavola e assaggiare. Poi provare la combinazione con la mini-Saison. Il cui “armamento” in fatto di acidità, oltre ad andare in sovrapposizione attenuativa su quello dell’aceto appena citato, rivela almeno un altro paio di qualità: da un lato, esprime una capacità di gestione lipidica che non teme certo l’urto con l’olio della salsa di condimento della tartare; dall’altro lavora (così come sull’aglio della bruschetta) in modo tale da smaltire la nota carnea (d’impronta solforata e potenzialmente fastidiosa) tipica del pollame. E dunque, sì: una pinta da 2 gradi e 9 appena; ma un caratterino di tutto rispetto; anche in abbinamento…

MONKISH BREWING
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