Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
La curiosità

Arancine a Palermo, il 13 dicembre tra gusto ed echi letterari

13 Dicembre 2013
image3 image3

«Adelina fa gli arancini e io me ne vado a Parigi…». Salvo Montalbano dixit.

Il grido di dolore lanciato dal commissario più amato d’Italia, nato dall’estro di Andrea Camilleri, la dice lunga sul legame viscerale che unisce i siciliani a una tra le più celebri tradizioni gastronomiche della cultura isolana, le cui origini si perdono tra le foschie (simboliche, per carità, siamo pur sempre in terra di Trinacria!) del Mito e della Storia, tra suggestioni saracene e regali corti normanne e sveve.

Se poi ci si avvicina alla ricorrenza del 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, il “culto” siculo per le arancine trova in Palermo il suo vas electionis, il suo cuore pulsante. Il sesso della nostra “palla di riso”, (questione sublime e oziosa come l’angelico sesso nel medioevo), del resto, è combattuto da provincia a provincia. In un’intervista di qualche anno fa, Gaetano Basile, storico delle tradizioni popolari, ebbe a precisare la natura muliebre dell’arancina forte dell’orientamento della stessa Accademia della Crusca. D’altro canto, il palermitano doc, se intervistato, non avrà dubbi a rispondere: l’arancina è fimmina, deriva forma e peso dall'arancia, con buona pace, ça va sans dire, dei catanesi.

Quanto alla tradizione, alla metà del ’600 l’approdo di un vascello carico di grano, per volontà della Santa, salvò la città (la disputa geografica è con Siracusa, ricordiamolo) dalla carestia: da qui l’origine della cuccia, grano bollito e condito con un filo d’olio e, per l’abbandono cultuale della farina, la conseguente abitudine di preparare una pietanza veloce a base di riso.

La sfrenata fantasia culinaria dei palermitani celebra così se stessa nel giorno della Santa, quel 13 dicembre in cui la tradizionale astensione da cibi farinacei sfocia nel trionfo dell’arancina e nella piena soddisfazione dei suoi ammiratori, tra riso spolverato di zafferano, ragù di carne o burro e prosciutto cotto, ma anche pollo, salmone, cioccolato e zucchero. E chi semu, surdi e muti (e privi di papille, verrebbe da dire, a questo punto)?

Gianfrancesco Iacono