IL DIBATTITO
Come si mangia a Palermo? Il parere del critico enogastronomico Raspelli, dopo il caso lanciato da Cronache di Gusto. “Nel piatto stanno sparendo tradizione e territorio, mentre dilaga una cucina che vuole stupire ma non lascia nulla in bocca”
La terra
persa di vista
“Palermo rischia di perdere di vista terra, tradizione e territorio. Sta dilagando una cucina che vuole scioccare con novità che non lasciano niente in bocca”, lo dice Edoardo Raspelli, volto della tv della critica enogastronomia, quella che non ha peli sulla lingua, onesta.
Un commento di rammarico per colui che per la prima volta ha fatto inserire nella guida dei ristoranti d’Italia dell’Espresso la voce cibo di strada che considera una delle migliori espressioni della ristorazione. Nei suoi recenti viaggi in Sicilia, il conduttore di Mela Verde, avrebbe trovato una capitale che propone una ristorazione casuale, la stessa che avrebbe riscontrato nel resto della Penisola.
In che stato ha trovato la ristorazione a Palermo?
“In questo ultimo anno qualche possibilità di venire in Sicilia per Avvinando, per il Cous Cous Fest, e recentemente sono stato anche alla Vucciria a ‘Le vie dei Sapori’ promosso dall’Ateneo. Ho trovato alberghi e ristoranti che, come sta succedendo anche in altre città d’Italia, corrono il rischio di perdere di vista terra, territorio e tradizione per fare una cucina che cerca di scioccare con novità che poi stingi stringi in bocca non lasciano niente”.
Cosa le piace di Palermo?
“La ristorazione tradizionale”.
Per lei è questa la grande ristorazione?
“La grande ristorazione deve nascere da quella tradizionale. Sono per la cucina della tradizione, per i mercati, per il cibo di strada e Palermo da questo punto di vista è un’esplosione di sapori: dal polpo al pane ca meusa. Ma ci sono grandi ristoranti comunque come Piccola Napoli e il Bye Bye Blues”.
E qualcuno da essere stellato?
“Stellato? Non me lo nomini, mi va di traverso. Ho la minima stima gastronomica per questa guida che alla fine recensisce ristoranti che vanno sulla bocca di tutti”.
Come mai secondo lei l’alta qualità non decolla?
“Diciamo che il settore risente della crisi economica e delle scelte individuali. Perché ricordiamo che il ristorante è un’impresa individuale. E’ bastato che un Nino Graziano chiudesse il Mulinazzo per andare in Russia perché il territorio rimanesse orfano. E lì sta avendo successo proprio perché ha aperto con il marchio della Sicilia. Solo una piccola azienda che ha chiuso ed è il disastro”.
Pensa ci siano pochi chef all’altezza, manca il professionismo?
“In Italia sono spariti i mestieri di servizio, nessuno vuole portare le valige o fare il cameriere o appunto il cuoco. Ricordiamoci cosa siamo in questo Paese. Un ragazzo universitario che non trova lavoro e ha soldi magari apre un ristorante, uno che non vuole fare nulla invece lo mandano all’alberghiero. Si assiste anche per questo ad una ristorazione casuale. Le scuole di formazione sono povere per colpa dei governi. Per adesso i ristoranti vanno avanti col pizzaiolo rumeno, il cameriere moldavo e la barista russa, e per fortuna che ci sono loro. Questo è il mondo. Il personale extracomunitario che non ha fatto scuole europee che prepara piatti della tradizione”.
Manuela Laiacona