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Ecco i 9 presidi Slow Food al top della classifica mondiale

02 Novembre 2012
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Un presidio Slow Food, per definizione, sostiene una piccola produzione tradizionale che rischia di scomparire, vuoi per alcuni fattori che mettono in pericolo specie animali o vegetali, vuoi per un determinato metodo di lavorazione che la modernità spinge ad abbandonare.

Sono ormai quasi 400 i presidi riconosciuti, oltre 200 in Italia. Ma tra questi, ci sono alcuni che più degli altri influenzano positivamente l’economia locale, l’ambiente o la società. Un’indagine condotta da Slow Food in collaborazione con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, l’Università degli Studi di Torino e l’Università degli Studi di Palermo ha individuato 9 ‘superpresidi’, che incrociando diversi grafici sulla sostenibilità nei tre ambiti risultano in vetta alla classifica.

Questa la lista di chi si è aggiudicato il riconoscimento:
Lenticchie di Ustica (SICILIA) – Sono le più piccole d’Italia, coltivate appunto sull’isola in provincia di Palermo. Dopo la nomina a presidio, molti terreni prima abbandonati sono stati recuperati e destinati alla coltivazione, in cui non si utilizzano concimi o erbicidi. Ogni fase della lavorazione è fatta a mano, tranne la trebbiatura. Alimento povero, ma alla base delle ricette tradizionali dell’isola. Gli agricoltori di Ustica, originariamente tre, sono adesso sei.

Cappero di salina (SICILIA) – Quest’isola delle Eolie è diventata il centro della produzione del cappero di qualità. Le piante sono ormai elemento distintivo del paesaggio, sebbene le difficoltà di coltivazione e raccolta, internamente fatta a mano, rappresentino una seria minaccia alla sopravvivenza del prodotto. Da fine maggio ad agosto, ogni 8-10 giorni, i raccoglitori vanno sui campi già alle 5 per evitare il troppo caldo. I capperi si fanno poi asciugare su teli di juta e sono quindi salati con sale marino grosso. Nei giorni successivi devono essere travasati da un recipiente all’altro per evitare la fermentazione, e solo dopo un mese possono andare sul mercato.

Aglio di Vessalico (LIGURIA) – I produttori  di questo piccolo comune nell’entroterra di Albenga ne hanno tramandato i bulbi, oltre alle tecniche di coltivazione, completamente manuale, e del particolare confezionamento. È grazie a loro se si trovano ancora in commercio le lunghe trecce di teste d’aglio, lavorate soltanto la mattina o la sera, quando il calore non può ancora seccare le foglie e renderle troppo fragili da torcere. Le reste, così appunto si chiamano le trecce in dialetto, possono essere conservate per nove mesi , entro i quali l’aglio mantiene il suo gusto delicato e leggermente piccante.

Agnello sambucano (PIEMONTE) – Nel 1985 in Valle Stura, in provincia di Cuneo, si contavano 80 pecore sambucane. Oggi sono oltre 5mila. Fu la Fao a indicare per prima la razza come ‘vulnerabile’; nacquero quindi movimenti per cercare di salvare i capi e anche Slow Food sostiene adesso gli allevatori con il presidio. Nel borgo di Pontebernardo è possibile visitare l’Ecomuseo della Pastorizia, che offre un quadro della vita e delle tradizioni dei pastori della Valle, oltre a ospitare un piccolo caseificio ed esporre vestiti in lana di pecora sambucana.

Saras del fen (PIEMONTE) – Saras nel dialetto della val Pellice significa ricotta. In passato, una volta prodotta negli alpeggi, andava portata a valle e per proteggerla si avvolgeva nel fieno. Da qui il nome, saras  ‘del fen’. I produttori storici vivono i mesi estivi sulle malghe, dove fanno bollire il latte per ottenere il siero, base della ricotta. Questa, una volta pronta, può essere consimata fresca o venir stagionata per circa quattro mesi. 

Bitto storico (LOMBARDIA) – Il Bitto è innanzi tutto un torrente, che scorre nelle valli di Albaredo e Gerola, in provincia di Sondrio. Quando parliamo di Bitto pensiamo ormai soprattutto al formaggio lombardo, ingrediente essenziale dei pizzoccheri della Valtellina. Per la sua produzione si utilizzano tecniche tradizionali, importanti sia per garantire la qualità del prodotto, sia per la salvaguardia dell’ambiente e la valorizzazione del territorio. Nei mesi estivi le mandrie bovine vengono portate al pascolo, che si sviluppa in tre fasi, su tre livelli, partendo dal basso e risalendo fino ai 2mila metri gli alpeggi che vengono così sottratti all’abbandono . Altra peculiarità è la monticazione delle capre, il cui latte concorrerà con un 10-20% alla produzione. La mungitura si fa a mano ed è vietato l’uso di integratori alimentari prima e additivi, conservanti o fermenti in un secondo momento. La stagionatura, di obbligatoriamente almeno 12 mesi, può raggiungere i 10 anni.

Maiale euskal txerria (PAESI BASCHI) – Il presidio è nato per cercare di proteggere una razza a rischio scomparsa. Zampe corte, grandi orecchi penduli e macchie nere sulla testa e sulla parte posteriore del corpo allungato, dalla carne dell’euskal txerria si ricava una particolare salsiccia, la lukainka, oltre al tipico chorizo e altri insaccati. Gli allevatori sono soltanto due, che utilizzano un sistema estensivo con non più di 14 animali per ettaro, ma grazie al recente successo e agli insegnamenti di Pello Urdapilleta alcuni giovani hanno iniziato a comprare euskal txerria e il numero potrebbe presto crescere.

Vino in anfora georgiano (GEORGIA) – Uno dei tre produttori arrivati a Torino al Salone del Gusto non aveva mai lasciato il suo Paese. Il vino, nella regione georgiana di Imereti, è prodotto essenzialmente per le cene in famiglia e prima dell’arrivo di Slow Food nel 2008 gli agricoltori della zona non pensavano certo a esportarlo in giro per il mondo. In Georgia è sopravvissuta negli anni l’antica tradizione di vinificazione in anfora, adesso tornata di moda per molto tempo quasi scomparsa altrove. Slow Food, istituendo il presidio, vuole salvaguardare non solo i vignaioli locali ma anche gli artigiani, sempre meno, che producono le anfore seguendo tecniche antichissime.

Slatko di prugne pozegaca (BOSNIA ERZEGOVINA) – Il significato di slatko, in bosniaco ‘dolce’, si è esteso fino a indicare questa conserva sciroppata a base di prugne. Il procedimento abbastanza complesso e la guerra che ha raso al suolo i frutteti dell’area intorno a Goradze, hanno in parte frenato la produzione. Negli ultimi anni tuttavia, un gruppo di donne riunite nell’associazione Emina ha recuperato la tradizione e realizzato un piccolo laboratorio per la commercializzazione.


 

Bianca Mazzinghi