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L'intervento

La moda degli Orange Wine: “Vini rischiosi da produrre, ma dipende chi li fa”

15 Maggio 2017
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di Daniele Cernilli, Doctor Wine

Oggi è una moda dilagante, soprattutto a Londra, dove esistono, principalmente nel West End, molti wine bar che li propongono quasi in esclusiva. 

I cosiddetti “orange wine” sono quei vini prodotti da uve a bacca bianca, ma che sono vinificati come se fossero dei vini rossi, con un contatto anche molto prolungato fra i mosti, le bucce e le fecce sottili, i lieviti e i batteri lattici che, finito il loro compito, muoiono, si depositano sul fondo della vasca o dell’anfora e cedono lentamente le loro proteine. Questo consente l’estrazione di sostanze principalmente polifenoliche, aromatiche e proteiche che li rendono di colore giallo carico, “orange”, appunto, poi più ricchi, corposi e capaci di invecchiare.

Se tutto viene fatto con criterio e con adeguate conoscenze tecniche. Altrimenti fenomeni ossidativi e produzione di sostanze volatili poco gradevoli sono in agguato. Fino agli anni '60 del secolo scorso i vini bianchi erano quasi tutti prodotti così. Quando mio padre mi mandava, meno che quindicenne, a comprare il bianco sfuso dei Castelli dal vinaio sotto casa, ritornavo con bottiglioni da due litri di vetro trasparente pieni di un liquido color arancione. Una volta, per Natale, un fornitore (mio padre aveva un negozio di mobili) ci mandò dal Veneto una cassetta dei vini bianchi che produceva e che erano chiarissimi. Lì erano arrivate le prime presse orizzontali e già vinificavano in bianco. Mi sembrarono stranissimi, così diversi e “pallidi”, ma anche così profumati. Stava iniziando una rivoluzione che in pochi anni portò a produrre vini bianchi ovunque ed enologi veneti, tutti figli di Conegliano e delle teorie del professor Tullio De Rosa, a colonizzare l’Italia del centro e del sud.

Da una decina di anni a questa parte, ma i pionieri degli orange wine hanno iniziato ben prima, c’è una controtendenza. L’inconsapevole iniziatrice fu Paola Di Mauro con il suo Marino ancora vinificato “in rosso” negli anni '80. Poi arrivò Josko Gravner con la sua visione quasi filosofica del rapporto fra interno ed esterno del chicco, teso a recuperare la completezza degli elementi che si formavano naturalmente (stavolta si può usare il termine) nel processo di maturazione. Infine tutti gli altri, qualcuno per convinzione, qualcuno per “cavalcare” la moda.

Ci sono pro e contro, come in quasi tutte le cose. I pro è che gli orange wine si distaccano da un profilo eccessivamente tecnologico, che, se funziona con vitigni aromatici o pirazinici, rischia di rendere meno interessanti i bianchi prodotti da uve tendenzialmente neutre, come sono la maggior parte di quelle italiane. Poi si evitano interventi esterni ed estranei, come l’uso del legno piccolo. Cos’è la buccia se non l’artefice di un naturale apporto di polifenoli, un aspetto comune alla cessione di sostanze simili dal legno?

I contro. Per vinificare “in rosso” le uve bianche bisogna che queste siano sanissime ed è necessario sapere il fatto proprio in vinificazione. È più difficile, più rischioso, molto più “artigianale” come processo, e non sempre i risultati sono adeguati alle aspettative. Ma quando gli orange wine si chiamano Ribolla di Gravner, Solo MM14 di Vodopivec o Dettori Bianco, allora siamo davvero in un altro mondo.

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