Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Vivere di vino

L’ansia per le vigne e l’etica del vino

24 Aprile 2012

Non gli piace essere definito con nessuna etichetta, nemmeno con quella di produttore biologico o naturale, ora che è entrato al terzo anno di questo regime.

Francesco Spadafora (nella foto) è diventato, in sordina, uno dei rappresentanti più costanti del mondo del vino siciliano, lui che ha deciso di ritirarsi a vivere tra i suoi vigneti a Virzì, nell’agro di Monreale, nella Sicilia occidentale.  Si definisce come uno che fa il vino e basta, anche se alla domanda su come si possa farlo bene la risposta che dà è la più onesta e spiazzante che si possa sentire: “Non lo so”. Per lui non esistono categorie o protocolli universali da affibbiare al concetto di produzione, vale solo l’onestà, intellettuale ed enologica, il rispetto della natura e del consumatore.  In questa intervista qualche indizio sulla personalità, a volte controcorrente, del produttore.
 
La sua storia è nota ai più ma ci racconti perché ha deciso di ritirarsi in campagna per vivere a contatto con le sue vigne?
“Ho fatto questa scelta una decina di anni fa. Diciamo che non riesco a vivere lontano dalle mie vigne. Entro in apprensione. Alla fine è un’esigenza. Per potere fare vino devo stare a contatto con la mia terra. Seguo tutto io. Del resto non può che essere così se è il mio vino e porta il mio nome. Anche se mi allontano e sono in viaggio all’estero per promuoverlo il pensiero sta sempre a loro e alle condizioni meteo. A maggior ragione che adesso produco in biologico. Sono 95 ettari. Non è una cosa semplice. Non puoi operare se non vivi questa realtà sul momento”.

La sua giornata tipo?
“Sveglia alle 6, 40, movimento, stretching, colazione e doccia”.

Fa biologico ma non le piace sentirsi definire come produttore naturale.
“Perché oramai è diventata una parola di marketing e sono tanti quelli che si sono prostituiti a questa parola. Io non la scrivo sulle mie etichette. L’unico termine da utilizzare è “etica”. Che significa fare bene il proprio lavoro, fare i seri, essere trasparenti avendo rispetto di chi beve il tuo vino, e avere rispetto del proprio nome”.

E’ migliorata la qualità del prodotto dopo la conversione? E’ più buono il vino se biologico?
“No. Non significa che è più buono e non significa che con la conversione è migliorato. Ho solamente cambiato metodo di coltivare e produrre. E’ semplicemente diverso. Ho reputato di farlo solo perché ho un determinato modo di concepire il rapporto con la terra. Poi cosa significa buono? Questo  parametro è relativo. Il vino è una cosa soggettiva. Concordo con il punto di vista di Attilio Scienza sull’inutilità dei punteggi o degli schemi che devono decretare cosa sia buono o no”.

E allora come lo definirebbe un vino buono?
“Un vino fatto bene.  Che sa superare la prova del tempo. Se dopo quindici anni apro una bottiglia e quel vino si lascia bere allora posso dire che ho fatto bene il mio lavoro. E’ fondamentale prendersi il tempo. Tengo le mie bottiglie in cantina per cinque anni, sei, anche se con enormi costi. Se non mi convincono aspetto ancora tempo”.

Ma lei come lo beve?
“Assieme al cibo. E poi esiste un vino per ogni momento della giornata. Lo bevo soprattutto per rilassarmi”.

Il suo primo ricordo legato al vino.
“La vendemmia. Ricordo la mia prima. Ci riunivamo assieme alle famiglie degli operai che ci aiutavano. Eravamo una quindicina di famiglie. Si condivideva tutto. Una gran confusione.  Bellissimo ricordo”.
 
L’annata del cuore? Ne ha una?
“Anche questo è un termine che non lo concepisco.  Non ha senso. Si fa un gran parlare di annate. Ma se ne può parlare solo quando si apre la bottiglia dopo anni. Le cose cambiano tantissimo e ci sono troppe variabili, se supera, ribadisco ancora, la prova del tempo allora è stata una grande annata. Addirittura si chiede di prevederle o darne un giudizio mentre la vendemmia è in corso. E’ assurdo. Comunque la 2000 di Sole dei Padri, per me, è quella del cuore”.

Allora ci dica qual è l’etichetta del cuore.
“Quella che farò. Porta il nome di mia figlia. Un metodo classico di Grillo: Enrica Spadafora. Però mi affiora in mente un Pinot Noir neozelandese che bevvi con una ragazza. Non ricordo bene il nome. Ma mi è rimasto il ricordo nettissimo della bontà di questo vino. Non l’ho mai più ritrovato”.

Progetti per il futuro?
“Proseguire quello che faccio e comunicare quello che si fa in vigna. Soprattutto ai mercati esteri va spiegato il territorio, oramai lo diciamo tutti e se ne parla dappertutto. Non serve la sola Denominazione di origine  in etichetta e meno che mai la Doc Sicilia, perché quello che si deve comunicare è il territorio da cui proviene quel singolo vino”. 

M.L.