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Vivere di vino

Tamburini: “Vini naturali? No al settarismo. I francesi? Leggete il disciplinare di Bordeaux”

05 Febbraio 2021

A un giovane consiglierebbe di studiare da enologo. Senza indugi. La sua passione sono soprattutto le bollicine. E Italia a parte, è particolarmente attratta dalla “viticoltura argentina a mille metri sulle Ande dove la “purezza” della luce fa una bella differenza”.

E sui vini naturali… Incontriamo Barbara Tamburini alla Duca di Salaparuta. Da poco tempo è, tra le altre cantine, il consulente enologo della storica azienda siciliana. Si parla di vino, di territori, di passioni, di prospettive assieme a Roberto Magnisi, direttore di Duca e anche di Florio. Il team che lavora con la Tamburini, enologo toscano che ormai a preso a cuore le sorti del vino del Sud Italia, è affiatato. Ne è venuta fuori una chiacchierata che qui vi riproponiamo.

Possiamo immaginare che l’enologo sta al vino come l’allenatore a una squadra di calcio? E allora come intende il suo lavoro in vigna e cantina? E come vede le interazioni tra vigna e cantina nel fare un vino?
“Personalmente e professionalmente credo molto nella validità delle qualità e della professionalità del team. Infatti, sono convinta che, affinché un grande enologo possa portare a compimento un importante risultato, è determinante che possa stabilire e condividere gli obiettivi da raggiungere con la proprietà di un’azienda e con la forza vendite, dopodiché da leader della squadra ha il compito e la responsabilità di stabilire il percorso, sceglierne le traiettorie giuste e guidare la squadra alla giusta velocità. La viticoltura di qualità è alla base di una enologia di valorizzazione delle uve ottenute. La vendemmia è uno dei momenti più significativi per la nascita del vino. L’identificazione del giusto momento di raccolta delle uve è fondamentale sia per la componente aromatica e quindi per il patrimonio olfattivo, che per quella strutturale e quindi del gusto del futuro vino. Ecco perché il periodo che precede la vendemmia mi porta spesso a lunghe passeggiate nei vigneti. Dai controlli sensoriali a quelli analitici delle uve in fase di preraccolta, si passa alla vendemmia e quindi alla vinificazione, altro momento “chiave”, in cui le uve vengono trasformate in mosto, dal quale poi – attraverso la complessa, importantissima e fondamentale fase della fermentazione alcolica – scaturirà il vino e la nuova “creatura” prenderà forma”.

Allora cosa è per lei il vino?
“Il vino è il frutto dell’unione di numerosi fattori, viticoli ed enologici. Quindi è natura, scienza e conoscenza che si incontrano. Il vino per me è un’opera d’arte, e – come tutte le opere d’arte – nascendo dal cervello e dall’anima di chi le ha create, va considerato come espressione della natura attraverso la creatività umana. Il fascino del vino è inesauribile, sia quando da enologo lo immagini, lo progetti dando il tuo contributo per ottenerlo, sia quando dopo diversi anni – di quello stesso vino – ne stappi una bottiglia e ti suscita emozioni straordinarie! Il vino per un enologo, è come il volo per un pilota che, dopo aver indossato le ali per la prima volta, non le perde più”.

Negli ultimi venti anni si è assistito in Italia a una grande rivalutazione dei vitigni autoctoni. Meglio tardi che mai? Oppure facciamo torto ai vitigni internazionali che restano le varietà più gettonate nel mondo?
“A mio avviso i due grandi gruppi, sia quello dei vitigni autoctoni, che quello dei vitigni internazionali, hanno ciascuno delle peculiarità uniche, ovvero i primi sono così legati ai loro territori di origine che anche spostandoli in altre aree del mondo difficilmente esprimono un carattere varietale riconoscibile e costante, così come invece avviene nei territori di origine. Mi riferisco al Sangiovese lontano dalla Toscana e dal centro Italia, così come il Nebbiolo al di fuori del Piemonte e dalla Valtellina, così come il Nero d’Avola al di fuori della Sicilia. Per quanto riguarda i cosiddetti vitigni internazionali, va evidenziato che essi non appartengono a ben determinate aree geografiche come i vitigni autoctoni italiani, per cui considero fuorviante parlarne come di due gruppi distinti di vitigni in contrapposizione, mentre – invece – dovremmo considerare i secondi come elementi che si inseriscono in aree tradizionali solo a seconda delle necessità, acquisendo per di più una identità specifica legata al territorio in cui vengono coltivati, per cui un vino ottenuto da uve di Cabernet coltivato in Toscana presenterà caratteristiche ben differenti da quello ottenuto dal medesimo Cabernet coltivato in Trentino”.

Altra tendenza degli ultimi venti anni è quella di evidenziare il territorio a dispetto di qualsiasi altra cosa nella comunicazione del vino. Un po’ è la lezione insuperata dei francesi. Che secondo noi restano inarrivabili. E allora ha senso inseguirli sulla loro strada? Abbiamo una strada italiana in tal senso?
“A mio avviso i francesi hanno iniziato a produrre vini di qualità quando in Italia la viticoltura e l’enologia erano ancora prodotti su una base principalmente quantitativa. A partire dagli anni ’90 quando si è iniziato a modificare gli impianti viticoli, con l’incremento della densità di piante per ettaro nei nuovi vigneti, le selezioni clonali sui vitigni autoctoni più importanti e la riscoperta di vitigni autoctoni minori, nonché le cure adottate in cantina con le nuove tecnologie, devo dire che il livello qualitativo dei vini italiani ha raggiunto punte di eccellenza che si sono affermate a livello internazionale. Oltre a ciò – e non certo di secondaria importanza – al giorno d’oggi, dopo oltre trent’anni di esperienze, possono testimoniare anche la tenuta nel tempo. Detto questo, mi sento di affermare, senza peccare di presunzione, che il vino italiano qualitativamente parlando non ha niente da invidiare a quello prodotto dai più importanti dei “cugini” francesi. Quanto alle strategie di comunicazione, alla capacità di fare sistema, nonché ai disciplinari di produzione – vedi il disciplinare di una delle loro denominazioni più importanti quale quella del Bordeaux che si esaurisce in una sola pagina, a fronte degli sproloqui dei nostri – direi, che la strada da percorrere da parte nostra è ancora un po’ lunga per adeguarci al loro pragmatismo e alla loro capacità di “fare sistema” fra i produttori di ogni singola zona viticola e nell’insieme nazionale”.

Come valuta oggi la Toscana del vino? E può darmi una valutazione su tutte quelle regioni dove lavora e offre il suo know how?
“Partirei dall’Italia del vino, per affermare che il nostro Paese grazie alla sua conformazione geografica, ai diversi territori estremamente vocati dal punto di vista vitivinicolo, grazie alla diversità dei climi e all’unicità dei microclimi, è capace di darci soddisfazioni incredibili nella produzione dei diversi vini dalla Valtellina alla Sicilia, passando dalla Liguria e dalla Toscana. Quest’ultima regione è quella in cui sono nata ed in cui vivo e che mi sta gratificando molto dal punto di vista dei risultati che si ottengono nelle diverse zone vitivinicole in cui sono chiamata ad operare. Ecco che in questo breve percorso ho toccato i diversi territori, il Nebbiolo in Valtellina è il protagonista indiscusso nelle diverse sottozone dal Sassella, al Grumello, all’Inferno dando origine a vini di grande personalità ed eleganza. Il Vermentino in Liguria dà origine a vini profumati, sapidi e vivaci. In Toscana lo stesso Vermentino è protagonista nel mondo dei vini bianchi a cui, nel campo dei vini rossi, si affianca il Sangiovese, elegante e strutturato nell’entroterra, talvolta più complesso in zona costiera. Qui leader spesso sono anche i vitigni internazionali quali Merlot e Cabernet sia Sauvignon che Franc. Fino ad arrivare in Sicilia, altra terra a mio avviso fantastica dove non è un caso quando si dice che in una sola regione è racchiusa la sintesi del mondo vitivinicolo del nostro Paese. Qui si inizia la vendemmia a fine luglio, con i primi Chardonnay vicini al mare, e si finisce a fine ottobre con il Nerello Mascalese sull’Etna. Qui i vitigni autoctoni, che hanno fatto la storia vitivinicola ed enologica della Regione, sono ovviamente il Grillo ed il Nero d’Avola, il Carricante ed il Nerello Mascalese, così come lo Zibibbo, affiancati dai vitigni autoctoni minori, nonché da alcuni dei vitigni internazionali più importanti, che hanno fatto sì che questa regione sia uno dei riferimenti qualitativi italiani nel mondo, affiancando Toscana, Piemonte e Veneto, che per prime si sono distinte”.

Una domanda a parte sull’Etna. Perché si parla di fenomeno Etna?
“A volte la Natura ci fa dei regali di importanza incommensurabile e – per di più – l’uomo si dimostra capace di trarne grandi benefici. Uno di questi è senza dubbio il territorio che si è formato nei millenni alle pendici del vulcano Etna, che presenta terreni provenienti dalle viscere del pianeta, formandosi via via nel passaggio dei vari strati della crosta terrestre. È come quando un torrente scende lungo le pendici di un monte, raccogliendo nel suo passaggio i tanti elementiche compongono le rocce sulle quali scorre verso valle. Al termine del percorso di entrambi, la composizione che sedimenterà alla fine sarà estremamente composita e pertanto ricca di tutti quegli elementi indispensabili all’insediamento ed allo sviluppo di una vegetazione che – confortata da un clima adatto – potrà esprimersi al meglio, in funzione della ricchezza del suolo e del sottosuolo che così si sono formati. Ecco dunque perché – parallelamente a quanto secoli addietro è accaduto alle pendici del Vesuvio – anche sui diversi versanti ed alle differenti altitudini della montagna dell’Etna si sono trovati terreni particolarmente adatti alla coltivazione delle più svariate essenze vegetali, fra le quali ha trovato eccellente collocazione anche la vite. A tutto ciò si può aggiungere – in questo particolare momento storico – l’effetto del cambiamento climatico, che spinge inevitabilmente la vite (come anche altre piante tipicamente mediterranee) a cercare terreni posti ad altitudini sempre più elevate, alla ricerca di condizioni di sviluppo e maturazione dei frutti che contrastino le condizioni climatiche divenute così difficili, sia per la carenza di precipitazioni che per l’elevazione della temperatura”.

La dialettica su vini naturali e convenzionali continua a tenere banco. Qual è la sua valutazione?
“Indubbiamente – come in tutti i campi – anche nell’ambito viticolo (ed enologico, di conseguenza), l’attività di ricerca non deve mai interrompersi, ma – anzi – deve percorrere tutte le strade che riguardano la genetica, la pedologia, l’agronomia, la climatologia, la tecnologia, l’informatica ed ogni altra scienza o disciplina che possano rispondere a domande concrete da parte dei produttori da un lato e dei consumatori dall’altro. In questo quadro inserirei anche i tentativi di verificare nuovi percorsi, che vanno, appunto, dal biologico al biodinamico, i cui obiettivi – alla luce dei risultati ottenuti fino ad oggi – sono senz’altro encomiabili, in quanto mirano alla riduzione degli indebiti impatti ambientali ed alla salvaguardia della integrità dei prodotti ottenuti. Alla base di tali tentativi, tuttavia, vi devono essere fattori inderogabili, quali la qualità intrinseca dei prodotti ottenuti ed il mantenimento della loro identità varietale e territoriale, senza alcun cedimento qualitativo in nome di supposte o conclamate rinunce ad interventi di corretta e sperimentata tecnologia. In altre parole le discipline del biologico e del biodinamico devono mantenersi rigorosamente nell’ambito scientifico e sperimentale e mai trasformarsi in una sorta di feticismo settario. Io stessa seguo alcune aziende nelle quali si applicano con successo queste discipline. Detto questo, risulta evidente la mia riluttanza ad affrontare la questione del termine “naturale” da attribuire ad un prodotto che è – per antonomasia – naturale. Rifiuto, dunque di introdurre questo termine nella cultura del vino, poiché se qualcuno ritiene di qualificare un vino con tale termine, significherebbe dare per scontato che esiste un vino da definire “artificiale”. Del resto anche in recenti dibattiti a livello legale, è emerso quanto sia inaccettabile e deviante il proseguire su questa strada”.

Crede davvero che la vendita online del vino stravolgerà i canali commerciali tradizionali in Italia?
“La vendita on line è un canale che si è affiancato ai canali tradizionali e ci ha portato a conoscere e sviluppare un sistema di vendita da un lato, e di acquisto dall’altro, normalmente diffuso ormai da anni in diversi Paesi nel mondo. Non sono però convinta che stravolgerà i canali commerciali tradizionali quando la pandemia sarà superata, in quanto, da buoni italiani, penso che torneremo con grande piacere in enoteca o al ristorante a comprare, o consumare, una bottiglia di vino con il desiderio di confrontarci con chi ce lo presenta o ce lo propone “de visu “, piuttosto che fare un acquisto avendo di fronte solo una scheda tecnica che ce lo introduce. Pertanto vendita on line sì, ma come nuovo canale parallelo e aggiuntivo, ma non sostitutivo”.

F.C.