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L'intervento

“Con un niente riusciva a dare un senso alle cose: ecco perché ci manca Beppe Rinaldi”

01 Settembre 2019
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(Una foto di altri tempi: in piedi Franco Scherpa e Walter Massa; seduti Beppe Rinaldi e Renato Zero)

Il 2 settembre del 2018 veniva a mancare Beppe Rinaldi, un grande vignaiolo delle Langhe. Abbiamo chiesto a Walter Massa, suo amico e collega una testimonianza ad un anno dalla sua scomparsa. Questo è il suo ricordo nel testo raccolto da Giorgio Vaiana

di Walter Massa 

La prima volta che ho sentito parlare della famiglia Rinaldi è stato a metà degli anni ‘70. Carlo Barale, mio compagno di classe e figlio di una storica famiglia di produttori di Barolo, mi aveva parlato del sindaco di Barolo, Battista Rinaldi, papà di Beppe, come colui che aveva reso possibile la trasformazione del trascurato castello nell'eccellenza mondiale dell'Enoteca di Barolo che oggi conosciamo. Beppe, enologo e veterinario, a quel tempo si dedicava più alle stalle che alle vigne. Il suo Natale più bello era stato quello del 2006, trascorso a far nascere un vitello. Ci siamo conosciuti al Merano Wine Festival. Era il 1995. Non parlammo di vino. Parlammo di motori, di Vespa e Lambretta. E con dialoghi di motori e di Lambrette si concluse il nostro ultimo incontro. 

Il nostro primo vero dialogo enologico fu sull'affinamento del vino. Era sempre stato contrario all'utilizzo della botte piccola. Una scelta che non ho mai condiviso fino in fondo, ma che mi ha aiutato a comprendere le variabili sull'utilizzo del legno. Insieme a Bartolo Mascarello e Baldo Cappellano aveva formato una sorta di “associazione”, il trio di paladini della botte grande contro la barrique. Il Triumvinato. Beppe è stato uno che ha messo la vigna al centro, non la moda o la politica. Ha sempre lottato contro le vessazioni al mondo rurale. Era nato nel 1948 e ha vissuto i periodi difficili del Dopoguerra. Dopo “La Malora di Fenoglio”, citava sempre la massima coniata da Bartolo Mascarello, che definiva le Langhe “zona colpita da improvviso benessere”. Nel 2001 un mio stagista, che nel frattempo è diventato un bravissimo produttore nella zona del Collio e Isonzo, mi chiese di visitare delle cantine dalle mie parti. Decisi che invece deve assolutamente visitare un innovatore di Barbaresco e un tradizionalista di Barolo.  Lo porto da Angelo Rocca e quindi da Beppe Rinaldi. Era troppo importante che conoscesse quell'uomo. 


(Le due bottiglie che Rinaldi regalò a Walter Massa)

Arrivammo in cantina da Beppe. Era con Baldo Cappellano. Per la prima volta vedevo due uomini nella loro enosfera godere parlando di una botte di legno da 70 ettolitri. Baldo voleva disfarsi di questa botte per fare spazio in cantina e Beppe gli spiegava che non si poteva né distruggere né ardere. Allora Baldo disse a Beppe di prendersela. Ma quella botte non sarebbe mai entrata in cantina date le sue dimensioni. Beppe, senza pensarci due volte, disse che avrebbe abbattuto il muro e, una volta dentro la botte, lo avrebbe ricostruito. E fece così davvero. Era un uomo che sapeva vivere. Che con niente dava un senso alle cose. Ha sempre guardato indietro per andare avanti. Un uomo che amava i dettagli. Che con un dettaglio creava un ricamo, un quadro, una scultura. Cultura. Aveva tanti difetti. Però io dico che quelli che la gente vedeva come difetti, erano grandi pregi. Non gli interessava la cultura dell'apparire. Non gli interessavano le etichette. Era un tipo che preferiva le bottiglie con la camicia. Ti portava in dono non una bottiglia di barolo, ma una cassetta di porri di Cervere, con la loro terra, le loro radici. 

Beppe enologo era diverso. Lui il vino non lo ha mai fatto. L'ha sempre ottenuto. Il vino era un effetto collaterale: lui viveva e di conseguenza produceva il vino. Ottenere il vino significa fidarsi della natura. La natura non la devi tradire. Mai. Né in vigna, né in cantina. La natura ha i suoi cicli che vanno accettati e compresi. Lui non forzava né la vigna né la cantina. Ogni tanto, come i grandi artisti, sbagliava. Ma sono troppi i quadri meravigliosi che ci ha lasciato. Il vino, anche se lo viveva come un effetto collaterale, era una cosa seria. Mi diceva sempre che il vino non era un gioco e che dovevamo utilizzare il lavoro fatto dai nostri nonni. Beppe con il suo modo di fare ci ha insegnato a stare al mondo. Facendo il vino solo con l'uva e con poco lavoro in cantina, ci ha insegnato la differenza che c'è tra i vini tirati, studiati, taroccati e i vini “animali”, i vini che hanno un'anima. Amava le piccole cose, come il prosciutto di Montagnana, i peperoni sotto vinaccia, che ci scambiavamo: lui mi portava quelli fatti con il Nebbiolo e io ricambiavo con quelli al Timorasso. Amava i gufi. Che fossero uccelli, simbolo, gruppo musicale. Non ti metteva mai in crisi ed era sempre disposto a darti una mano. Quando veniva a casa mia era sempre festa. E non ingombrava mai. 


(Beppe Rinaldi)

Io adesso non sto piangendo perché mi manca, ma godo perché l'ho conosciuto, l'ho frequentato e ha fatto parte della mia vita. Tra gli ultimi ricordi c'è la prima domenica di maggio dell'anno scorso. Ero andato a trovarlo. Salutandoci, vedo un vecchio lavandino in marmo e gli chiedo se anche lui  lo chiama “genovese”. Mi risponde di sì e aggiunge: “Prendilo”. E mentre rifiutavo, si era già chinato a prenderlo, nonostante fosse già provato dalla malattia. Oggi quel lavello è parte della mia cantina. Beppe è sempre lì ad aiutarmi. Dopo i due interventi, andavo a casa sua cinque minuti per un saluto. L'ultima volta dopo Ferragosto. Gli avevo portato le pesche di Volpedo. Beppe era seduto sul divano, flebo nel braccio e un toscano in bocca. Aspettava l'orario per vedere il risultato di Valentino Rossi al Gran Premio d'Austria. Era un grande appassionato di moto. Accanto al divano, il motore della Lambretta che aveva fatto appena restaurare. Iniziò a spiegarmi la differenza tra il motore con il cilindro in ghisa (tradizionale) e quello in alluminio (innovatore). Io sto ancora aspettando che torni a spiegare a tutti questa differenza. 

Ciao Beppe. 

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