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L'intervento

Se un vino Docg costa 2,30 euro la bottiglia

26 Giugno 2017
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di Daniele Cernilli, Doctor Wine

Di recente c’è stata un po’ di maretta nella rete “vinicola” perché si è venuti a sapere che il Monopolio della Svezia ha lanciato un “tender” (sono le proposte di acquisto) per una partita di Barbera d’Asti in legno piccolo con un prezzo massimo di 2,30 euro la bottiglia. 

Se si considera che il nostro paese esporta a un prezzo medio di 3 euro il litro, e che lo sfuso sta a 0,68, non sembra neanche così poco. Ma si tratta di una Barbera d’Asti, un vino a Docg, ed è veramente sconfortante vedere che è così svilito da una proposta di acquisto davvero bassa. Ci sarà chi aderirà? Certamente sì, saranno cantine cooperative, imbottigliatori industriali, che non mancano e che trattano grandi partite accontentandosi di minimi ricavi sulla singola bottiglia, cosa che un piccolo produttore artigianale non può permettersi di fare.

Ma questo è un discorso difficile da fare e da far capire ai consumatori, soprattutto se poco informati sulle cose vinicole. Difficile perché se le Doc e le Docg, che pure hanno molti meriti, non riescono però a far distinguere le diverse origini dei vini e i diversi costi di produzione, il rischio è quello della “legge di Gresham”, cioè che la “moneta cattiva scacci quella buona”, in questo caso il vino mediocre e a basso prezzo, ma che ha la stessa denominazione, distrugga quello migliore, artigianale, o comunque più curato nella produzione. Però ognuno poi fa i conti con il proprio portafoglio, e se ho solo tre euro da spendere per una bottiglia di vino, comprerò per quella cifra.

Ci sono vini discreti che costano relativamente poco, persino il tanto vituperato Tavernello o il Ronco sono vini senza difetti e che costano poco più di un euro. Ma non hanno né Doc né pompose Docg, e valgono quello che costano. Il problema perciò è nel sistema delle denominazioni, nel modo con il quale si attribuiscono e con il quale sono considerate dai consumatori. E se per quanto riguarda le Doc, il cui nome, ricordiamolo, ha una valenza molto importante nell’immaginario collettivo di chi non ha molte conoscenze nel settore, sono più che altro una garanzia di origine e non necessariamente di qualità, per le Docg il discorso è diverso. La legge, e lo Stato, per loro ammissione, devono garantire il “particolare pregio” dei vini che se ne avvalgono. E a “particolare pregio” il buon senso dice che devono corrispondere elevate qualità organolettiche che non possono andare d’accordo con prezzi di vendita troppo bassi.

C’è perciò qualcuno che bara? È fortemente possibile. Ci sono aziende che giocano con le documentazioni, come confermano le molte inchieste portate avanti dai Nas e dalla Guardia di Finanza, ma non sono i singoli casi, sempre meno, tra l’altro, il vero problema. La questione sta in cosa vogliamo che rappresentino le nostre denominazioni. Se sono solo un modo per mettersi i galloni e pavoneggiarsi, oppure se vogliono realmente garantire la qualità e i consumatori, e persino il reddito agricolo di tanti viticoltori. Questo è il tema centrale, ma temo che la nostra politica e anche molti speculatori, continueranno a raccontarci di pretese e inesistenti “eccellenze” e noi dovremo difenderci da soli con il passa parola e con le poche pubblicazioni serie rimaste nel nostro paese.

doctorwine.it