Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 28 del 27/09/2007

BUONE MANIERE Fammi vedere come mastichi e ti dirò chi sei

26 Settembre 2007
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    BUONE MANIERE

buone_in_hp.jpgIl galateo a tavola raccontato attraverso Colette e i passi di Cicerone. I veri scogli per una buona educazione? L’aragosta all’americana, l’uovo alla coque e gli asparagi…

Fammi vedere
come mastichi
e ti dirò chi sei

Lui, un bel giovanotto lombardo, non si era fatto più sentire per quindici giorni, dopo quella festa di Capodanno dove l’aveva corteggiata e dove avevano vinto insieme un cotillon, una bottiglia di champagne, che a lei era parso di buon augurio. Ma una mattina, sul tardi, si ripresentò.

E dopo i primi convenevoli, “Signorina, sa, questa mattina ho telefonato a mia madre e le ho detto che mi sposo”. “Ah – un po’ acidamente – rallegramenti, e con chi si sposa?”. “Con lei”. Questo fu l’inizio, ma di quel giovanotto la buona famiglia fiorentina di lei sapeva troppo poco. Discretamente si prese qualche informazione, la madre attraverso i preti che conosceva e frequentava pur non andando in chiesa, il padre attraverso il direttore di banca. Risultò che ci si poteva fidare della famiglia.
Ma lui, il bel giovanotto, com’era, veramente? Fu presto invitato a pranzo: le sue maniere a tavola avrebbero dato tutte le informazioni necessarie, perché lì, con coltelli e forchette, a tavola, avrebbe mostrato il suo carattere. Non solo la sua educazione mondana, ma il senso della misura o l’avidità, la fretta, il nervosismo o la pacatezza, il disordine o l’ésprit de geometrie. La famiglia fiorentina pensava che proprio a tavola si mostrasse il vero carattere e che non si riuscisse a falsificare, a mentire, a travestirsi, a ingannare. Fammi vedere come mastichi e ti dirò chi sei. Il giovanotto passò l’esame. E vissero insieme felici e contenti ? Non so, la storia appartiene alla mia famiglia allargata, non ho mai conosciuto i protagonisti e non posso dire se le maniere e il carattere mostrati a quel pranzo fossero davvero lo specchio dell’anima. Ma certo qualcosa avevano raccontato del bel Enzo. Ah, dimenticavo, a quel pranzo c’era, mi è stato detto, espressamente, della frutta, da sbucciare con forchetta e coltello. buone_2.jpgUn banco di prova insostituibile di addestramento e destrezza.
Così la giovane Gigi del romanzo di Colette, per superare gli scogli di una futura vita di società, viene addestrata dalla zia Alicia, ex cortigiana d’alto bordo, a mangiare le cose difficili. La zia Alicia riteneva che in un’educazione ci fossero “tre scogli principali: l’aragosta all’americana, l’uovo alla coque e gli asparagi”. E, riferisce la sorella, “secondo lei sono state le cattive maniere a tavola a far naufragare non pochi matrimoni”. Come non darle ragione? sopportereste a lungo quei rumori che si sentono nei ristoranti cinesi, soprattutto all’estero, dove sono frequentati da orientali che ne fanno di tutti i colori? E pare che per loro siano segni di gradimento. Essere al ristorante, figuriamoci nella vita, accanto a questi produttori di rumori può far saltare i nervi, come trovarsi in biblioteca vicino a degli studenti americani, che sono sempre raffreddati e non si soffiano mai il naso, ma, come si dice, “tirano su” (invece di soffiare giù, in un fazzoletto).
Certo le buone maniere, a tavola e altrove, cambiano a seconda delle epoche, dei luoghi, delle classi sociali. Cosa diremmo oggi del costume antico greco e romano di gettare per terra i rifiuti del cibo, lische, ossa e affini? Costume che ci raccontano i testi, uno di Cicerone ad esempio, che racconta di un pavimento sporco, colloso di vino e sparso di fiori secchi e lische di pesce (lo cita Quintiliano, tIII, libro VIII). Era un pranzo di dissoluti, di debosciati, forse un’orgia, ma i costumi non erano tanto diversi in occasioni più normali. Lo dimostrano quei bel mosaici di pavimento che si trovano ad Aquileia e ai Musei Vaticani che mostrano proprio un pavimento dopo un pranzo, cosparso di resti vari, bucce, teste e lische di pesce, ossa. Federico Zeri definì i mosaici “tappeti di pietra”, una definizione suggestiva anche se non del tutto calzante perché il mosaico non copre niente, non ripara, non scalda. È l’eccesso della decorazione che coinvolge anche il pavimento, e non solo i muri o – a seconda delle epoche – il soffitto. E come nel caso di questi con i rifiuti del banchetto non diversifica ma anticipa, prefigura la realtà.
Anche i greci buttavano tutto per terra come ci descrivono gli storici parlando del simposio perché il sympotein, il momento culminante e finale delle riunioni, il bere insieme, iniziava quando le mense erano state sgombrate, il pavimento pulito ed erano arrivati i desserts che accompagnavano il vino. Oggi un simile costume sarebbe tollerato da pochi. E aveva ragione Carlo Emilio Gadda, o meglio Gonzalo, la sua controfigura letteraria nella Cognizione del dolore ad essere scandalizzato e offeso dalla tolleranza della madre verso un certo violinista – certo un violinista di piazza a giudicare dalla descrizione e anche dalla preferenza della Madre per i peones – da lei invitato a pranzo e trattato con tutti i riguardi, il quale buttava per terra le lische del pesce che aveva mangiato. E Gonzalo – e Gadda con lui – non facevano proprio allusioni storiche: il violinista non rappresenta l’antichità, la memoria storica. E’ solo un maleducato. Un pretendente, ieri o oggi sarebbe senz’altro rifiutato.Non c’è citazione che tenga.
Torniamo a Gigi e agli scogli della sua educazione a tavola: i primi si è detto erano l’uovo alla coque e gli asparagi (che non mi paiono invece così difficili, avrei pensato piuttosto ai vari tipi di lumache) e l’aragosta all’americana. Il termine impiegato nella traduzione italiana, di Anna Bassani Levi (Adelphi) è questo: aragosta, ma l’originale è homard cioè l’ astice. Così come la ricetta “all’americana” di Escoffier (Guida alla grande cucina [Le guide culinaire,1907], Padova, Muzzio, 2001 (4) è per l’astice, correttamente, direi, perché quasi tutti i crostacei di questo tipo che si mangiano negli Stati Uniti, soprattutto negli Stati del Nord, in particolare nel Maine dove li si pesca sono astici, (Homarus vulgaris), turchino scuro e con grosse chele, che vive nelle acque fredde. Anche se la parola inglese/ americana che li designa, lobster, serve anche per la vera aragosta (Palinurus vulgaris), rossa o marrone, senza chele e con due lunghe antenne, che vive però in acque più calde. Mentre l’aragosta “alla parigina” e quella “alla russa” descritte da Escoffier sono già state private totalmente del carapace e di tutto il guscio della coda e la polpa viene condita variamente con maionesi, gelatine ecc., l’astice “all’americana”, sempre in Escoffier, dopo la preparazione e la cottura in casseruola presenta nel piatto la polpa già estratta ma anche i gusci della coda e delle chele, quindi richiede un po’ più di attenzione. Ora, sempre nel Maine, dove è diffusissimo e non tanto costoso, l’astice, e non solo nelle baracche dove ve lo cuociono quasi all’istante, ma nei ristoranti, viene servito anche intero, solo lessato e tale quindi da imporre strumenti appositi per schiacciare le chele e una grande cura per non sbrodolarsi fino alle orecchie. Ma lì è il divertimento, altrimenti in quattro bocconi la festa è già finita.
buone_3.jpgTornando di nuovo a Gigi, un altro scoglio, per l’educazione di una ragazza destinata alla vita di società, erano le allodole, dice la nostra traduzione. Chi saprebbe ora mangiare le allodole? Ma in realtà l’ originale ha ortolans, ortolani, che sono ugualmente degli uccelletti delle dimensioni di un passero e che come le allodole sono più grassi in autunno, dopo le semine. Chissà perché la signora Anna Bassani Levi ha scelto per la sua traduzione “allodole” invece che “ortolani”? Anche il lettore più gastronomicamente sprovveduto non avrebbe pensato che in quella casa si mangiassero i coltivatori dell’orto –o i venditori d’ortaggi. Invece l’allodola, per molti è un uccelletto da poesia e da canzone, più che da casseruola. Comunque, sia gli ortolani sia le allodole che in effetti si possono unificare, simili per dimensioni, stagioni e tipi di cottura, sono ignorati dall’Artusi, fra i grandi manuali italiani; l’allodola compare solo genericamente sotto la voce “uccelli arrosto”, mentre diverse ricette sono dedicate ai più soddisfacenti tordi (e infatti si dice “grasso come un tordo” e visto che l’uccello è bello tondo, e tondo in toscano significa,o significava, tonto, anche tordo vale per tonto). Anche dal bel volume di Anna Gosetti della Salda Le ricette regionali italiane (Milano, La cucina italiana) ortolani e allodole sono assenti. Una sola ricetta per gli ortolani in unione a un risotto, si trova invece nel Talismano della felicità di Ada Boni, mentre quattro sono dedicate alle allodole: “alla cacciatora”,”arrostite in casseruola”, “coi funghi” “nel nido” (che sono patate svuotate, qualcosa di vagamente simile al sarcophage delle quaglie del Pranzo di Babette di Karen Blixen). E allora, visto che il Talismano è un manuale di cucina, non solo italiana, uno pensa che siano ricette francesi. E invece forse non è proprio così, almeno non per tutte le ricette. Le più semplici, quella delle allodole arrosto, con il lardo, in casseruola, è così basica che non c’è bisogno dei Francesi, e anche quelle con l’uva e i funghi, ricette che i Francesi magari hanno per le quaglie, sono anch’ esse poco connotate. Mentre l’unica ricetta che in Escoffier mantiene il termine “allodola” , alouette, che secondo lui indica l’uccello vivo, mentre quello che sta già in cucina si chiama mauviette (ma ora in un buon dizionario medio bilingue, il Boch, questo uso culinario di mauviette è scomparso e la parola indica solo “persona debole, malaticcia” “lavativo”, “omicciatolo” ) è quella “ del Padre Filippo”. Questa ricetta è stretta parente delle allodole “nel nido” di patate del Talismano. Chissà chi era il Padre Filippo: le denominazioni dei piatti, quando non siano da luoghi o personaggi storici, ormai sono spesso dei misteri. Comunque la ricetta di Escoffier ha un sapore più campagnolo, più da cacciatori, con le patate, o i nidi già riempiti, cotti sotto la cenere nel focolare. Evoca grandi case di campagna, con quei focolari dove ci si sedeva dentro, serate attorno al fuoco, uva, vino nuovo (l’uccello è bello grasso in autunno, dopo le semine). Ma anche per gli ortolani Escoffier, che li apprezza molto- come certo anche la zia Alicia- ha numerose ricette, e diverse da quelle per gli altri uccelli, con l’ananas, con le prugne, in vaschette di porcellana o d’argento dette silfidi, in timballo, freddi in aspic, ancora freddi infilati in un mandarino(un altro sarcophage)
In ogni caso, se mai vi offrissero degli ortolani – o anche delle allodole, continuiamo a seguire la Bassani nel suo equivoco – si mangiano così, se vi volete fidare della zia Alicia e di Colette: “Le allodole tagliale in due con un colpo netto [ a tavola bisogna essere decisi, se vi scivola il coltello o l’allodola, sono guai], senza far stridere il coltello sul piatto, e poi mangiale in due bocconi. Gli ossi non contano. Rispondimi senza smettere di masticare, ma senza parlare a bocca piena. Vedi tu come fare: se ci riesco io devi riuscirci anche tu”.

Maria Grazia Accorsi