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Articoli sul Marsala

Sergio Miravalle “Marsala, dov’è finita la qualità?”

17 Luglio 2010
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L’isolamento e l’oblìo della Doc siciliana nel racconto di Sergio Miravalle, giornalista de La Stampa e grande enofilo. “Servono più produttori che puntano solo all’eccellenza, una sorta di mosche-cocchiere che fanno da traino altrimenti…”. Il caso del Barolo chinato

“Marsala,
dov’è finita
la qualità?”

“Il Marsala deve salire sul treno dei vini siciliani e abbandonare l’isolamento. Ma ci vogliono prima di tutto le mosche cocchiere. Pochi produttori che facciano una piramide di grande livello, che abbiano la capacità di fare un Marsala di ottima qualità, alla base, con punte di eccellenza.” Il parere questa volta arriva da una delle firme de La Stampa, Sergio Miravalle. Il suo intervento però lo fa da appassionato di enogastronomia e da blogger. (www.lastampa.it/miravalle).

In Piemonte e nel Nord Ovest più in generale si conosce il Marsala?
“Non tanto. E’ rimasto nella memoria collettiva di una certa generazione. Oppure è conosciuto da chi è stato in Sicilia, come qualche mio amico, che è stato a Marsala, ha avuto modo di conoscere il vino e ne ha portato su qualche bottiglia. E’ Un prodotto dimenticato”.

Nei locali allora non viene proposto?
“Se vado in un qualsiasi bar in Piemonte è probabile che una bottiglia di Porto si trova, ma quella del  Marsala non c’è. Se poi parliamo dei ristoranti, il suo posto è stato preso da qualche altro prodotto. Facciamo l’esempio dell’aceto balsamico di Modena. In tutto il Paese non c’è ristorante che non lo proponga in tutti i modi. Questo spazio che sta occupando l’aceto poteva occuparlo benissimo il Marsala. Non solo, non ha saputo nemmeno conquistare lo spazio da vino da chiacchiera, da conversazione”.

Forse è ritenuto un vino antiquato?
“No. Il problema è che non si racconta la sua storia. Al Marsala bisogna ridare dignità. Ha tantissima storia. Se dovessimo produrre un vino ci si mette sempre storia e territorio. E il Marsala di suo ce l’ha. Anzi devo dire che nel’ 150° anniversario dell’Unità d’Italia è la bandiera ammainata di questo Paese. E poi più che una fotografia ingiallita è una fotografia d’epoca dove guardare bene i particolari per ritrovare racconti intrecciati”.

Cosa si dovrebbe fare per farlo uscire dall’oblìo?
“Vi sono diverse strade che si potrebbero seguire. Intanto tornare ad una produzione di qualità. Che ci siano produttori spendibili che con la loro faccia possano raccontare le loro storie enologiche, il territorio e che vi siano ambasciatori nel mondo. Poi si deve uscire dall’isolamento e agganciare la propria immagine a quella complessiva dei vini siciliani che stanno vivendo una grande periodo. Metterlo a corredo di una proposta enologica dove il Marsala è di primo piano. Sul treno dei vini siciliani ci sta a pieno titolo. Bisogna cercare spunti e occasioni. Promuoverlo in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, non mi sembra banale. E’ nato tutto da lì, bisogna farlo trovare un vino che ha radici nella storia, non un vino polveroso, quello dei nonni, e soprattutto pronto dal punto di vista della qualità. Dovrebbe entrare nel circuito dell’enoturismo. Offrire ai turisti i bagli, renderli molto di più  visitabili. E poi ci vogliono le mosche cocchiere”.

Cioè?
“Pochi produttori, una piramide di grande livello, che facciano un Marsala di ottima qualità, alla base, e punte di eccellenza e attorno a queste punte una comunicazione di alto livello. Il Marsala ha  la fortuna di avere anche una bottiglia di un certo tipo, riconoscibile, di qualità. Perché non valorizzarla?”.

E’ d’accordo sull’uso come aromatizzante anche per gli alimenti industriali?
“Due sono le cose da fare: o il nome del Marsala viene tirato via da questo tipo di utilizzo, in modo da non vederlo così comparire in retro etichetta, o lo si valorizza, decidendo però di comunicarlo in questo senso, cioè che è buono anche per aromatizzare questi prodotti. Così come viene utilizzato ora è solo un danno alla sua immagine”.

Vino da vigna o da cantina?
“Dico che sono d’accordo che bisogna ritornare ad una naturalità di prodotto e renderlo più legato a quello che è il lavoro in vigna. Anche la cantina è importante. Non possiamo farlo  diventare come Vermouth dove non ci si preoccupa quale uva sia quella base. Il Marsala non deve perdere questo tipo di contatto, altrimenti diventa un prodotto industriale”.

Ma c’è qualche altro vino che sta subendo lo stesso oblio?
“Diciamo che con l’attenzione che si ha sul consumo dell’alcol e con l’utilizzo dell’etilometro si sta un po’ condizionando il consumo di tutti i vini italiani, in particolare quelli con più elevata gradazione alcolica. Diciamo che stanno scomparendo gli amari. Un caso anomalo invece è il Mirto”.

In che senso?
“Intendo che il mirto è un esempio da seguire. Anomalo perché un prodotto assolutamente regionale e artigianale che ha un mercato. Si è creato una cooperazione e passa parola tale che il mirto viene offerto spesso fine pasto, anche  fresco. Un risultato che si è raggiunto grazie alle idee commerciali di alcuni produttori, e oggi pur restando un vino che ha una connotazione regionale ha saputo conquistare spazi nel mercato. Se non si adottano politiche del genere si rischia  il declino verso il passaggio nostalgico della memoria”.

E la concorrenza di altri prodotti liquorosi?
“ La grande concorrenza del Marsalala potrebbe essere rappresentata dalla chinizzazione, dal  passito e dalle vendemmie tardive. Questo è il periodo del barolo chinato, prima un vino destinato ad una piccola nicchia, ora non c’è produttore di barolo che nella linea non abbia un chinato”.

Ha un futuro?
“Come vino da chiacchiera un futuro ce l’ha. Il Marsala deve lasciarsi raccontare”.

Lei lo regalerebbe?
“Lo regalerei se non legato all’immagine del vino da scaffale di supermercato. Ma una bottiglia con uno astuccio, una bottiglia che abbia il racconto anche nella confezione”.

Lo beve?
“Non è nelle mie abitudini bere il Marsala, ma non mancano le bottiglie in cantina. Sono stato però un buon propagandista al ritorno dai miei  viaggi in Sicilia. Veramente adesso che se ne è parlato mi ha fatto venire voglia di berlo”.

Manuela Laiacona